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Questo non è propriamente un diario di viaggio, ma piuttosto una rivisitazione, attraverso la memoria, dei luoghi visitati, che per chi come me è tendenzialmente sedentario, è la vera essenza del viaggio….
È un lavoro cominciato un mese dopo il ritorno e terminato un anno dopo, quando la memoria cominciava a farsi labile, quindi non prendetelo per una guida turistica, restereste delusi.
Ma cominciamo…

30 agosto: "sempre arriviamo nel luogo in cui siamo attesi"

Scrivo di questo giorno quand’è trascorso più di un anno …ed i ricordi si fanno confusi, forzatamente. La natura stessa di quest’ultimo tragitto, lunga traversata terrestre verso casa, lo rende difficile da fissare nella memoria. Si susseguono immagini disordinate, fotogrammi della memoria che fatico a ricollocare nel giusto ordine spazio-temporale. Le mura poderose di Carcassonne che scorrono alla nostra sinistra, transitando sulla “autoroute des deux mers”, ….Narbonne con la sua cattedrale che spunta dai tetti lontani,…. l’ingorgo autostradale all’incrocio con la A9 proveniente dalla Spagna: l’Europa Unita che si realizza sotto il sole di questa mattina, sull’asfalto fra Narbonne e Beziers dove scorrono al rallentatore fianco a fianco i cittadini francesi, spagnoli, italiani, inglesi, svedesi, ungheresi, polacchi….tutti accomunati nel rito conclusivo della vacanza estiva, l’ingorgo del rientro! Purtroppo il nostro scarso cosmopolitismo rende indecifrabili i messaggi radio di avviso, e quando pensiamo di essere ormai alla fine del “bouchon” capiamo di aver valutato le indicazioni al contrario…l’ingorgo comincia adesso! Fortunatamente, mentre per l’ennesima volta stiamo pianificando una via di fuga attraverso gli stagni della Camargue, il traffico torna scorrevole, ci mettiamo l’anima in pace e via.
E poi la Provenza, di nuovo, a pochi mesi di distanza: questa primavera io e Marina cercavamo la lavanda non ancora sbocciata, adesso sappiamo inutile ogni ricerca, con i fiori già raccolti da tempo, nell’estate che sta per finire…Passiamo Nimes, Arles, Aix en provence. Prima di Cannes ci fermiamo in una stazione di servizio per mangiare qualcosa al volo. Io e Tina recuperiamo i nostri preziosi formaggi di capra e verifichiamo se le lodi della produttrice erano fondate: la precarietà della condizione, fra rumori di motori e piombo degli scarichi, non consente una degustazione appropriata, ma nel complesso soddisfiamo l’appetito, sotto lo sguardo (e l’olfatto) un po’ perplesso di Marina. E pensare che qui vicino c’è Grasse, la capitale dei profumi…e invece le tocca stare immersa fra ‘sta puzza di “fromages de chevre” e l’odore di benzina…
Riprendiamo l’asfalto, ancora più di 500 chilometri…mi sa che il nostro treno “non fa più fermate, neanche per pisciare”, come quello di DeGregori. Ancora poco ed ecco l’Italia, ricompare fra una galleria e l’altra, il cartello ci avvisa ed è già andato, il paesaggio è sempre lo stesso di prima: bello, per quel poco che riusciamo a vedere da qui, con paesi e città che si susseguono lungo la costa ligure, ora vicina, ora più lontana. Il resto è pianura padana all’imbrunire: fosse autunno risulterebbe appropriato canticchiare la prima strofa di “la fisarmonica di Stradella”, del mitico Paolo Conte, “…cos’è la pianura padana dalle sei in avanti…una nebbia che sembra di essere dentro un bicchiere….ecc.. ecc..”. Per fortuna è solo la fine d’agosto, ma il crepuscolo e lo smog fanno un preludio d’autunno che da un po’ malinconia.
Eppure è qui che dobbiamo arrivare, perché come scrive Saramago nell’epigrafe al suo ultimo romanzo: “sempre arriviamo nel luogo in cui siamo attesi”….anche se mi pare che il senso della frase sia perlomeno duplice... Certo è bello pensare che alla fine di questo viaggio ci sia qualcuno a reclamarci, che le nostre radici chiedano di sprofondare ancora in una terra conosciuta, che la forza delle relazioni, degli affetti, sia come un faro che guida nella notte verso il porto sicuro. Ma un po’ mi sembra di coglierci anche il riferimento all’eterna storia di Samarcanda, tanto cara alla cultura orientale e, per noi (allora) giovani moderni occidentali, resa famosa da Vecchioni con la sua ballata. “Sempre arriviamo nel luogo in cui siamo attesi”, e tutti abbiamo la nostra Samarcanda da raggiungere, per non mancare l’appuntamento…
Ma per non lasciare che prevalga questa sensazione di “fine estate” che pure ci accompagna al termine del viaggio, quando l’orizzonte si solleva a disegnare profili conosciuti in fondo alla pianura, con l’avvicinarsi delle luci un po’ squallide ma famigliari della nostra (per gli altri anonima) periferia; per non lasciare che vada perduta quella poca spiritualità raccolta, ed è solo ieri, nei luoghi della fede dove abbiamo “pellegrinato”; per non lasciare che la nostra fretta di arrivare a Samarcanda cancelli il ricordo di tutti quei momenti in cui, anche in questo viaggio ma non solo, siamo stati vivi, felici e insieme….per tutto questo ho scritto. Ognuno avverte il bisogno, specialmente con l’età, di tracciare una mappa del proprio cammino, di lasciare come Pollicino dei sassolini lungo la strada, nella speranza di poter tornare indietro, sui passi conosciuti. Non è così, indietro non si torna. Possiamo solo coltivare oggi le relazioni, i legami, le amicizie e l’amore che ci rendano meritevoli d’essere attesi, e a nostra volta “attendere” (nel senso di “tendere verso” che sta nell’etimologia latina….), sperando magari che il luogo ultimo di questa attesa possa essere “oltre” Samarcanda….
Ah, a proposito di arrivi (in)attesi: due giorni dopo il ritorno, dai nostri souvenir caseari delle caprette di Heidi hanno fatto capolino dei timidi vermicelli francesi, a conferma che il principio di Saramago si applica essenzialmente al genere umano…. A meno che il destino di questi cagnotti d’oltralpe non fosse quello di finire così, in una pattumiera a mille chilometri di distanza dal luogo di origine…, ma se comincio a dissertare sul destino ultimo dei vermi…è davvero ora di finire!

29 agosto: Pau, Lourdes e i capri espiatori....

Pau, eleganza francese e cacche di cane….Non è la solita prevenzione italiana verso i francesi, che per altro non vedo molto diversi da noi (malgrado loro non ne siano felici…), è solo che sul selciato lindo ed elegante del centro la cacca si vede di più, e questa mattina passeggiando ne abbiamo dovute evitare un bel po’ (altri, meno fortunati o più distratti, staranno imprecando contro la specie canina e i relativi proprietari). Se di un luogo visitato ci si ricordano gli escrementi sul marciapiede….non è un bel segno, ed effettivamente la cosa non fa onore a questa cittadina del sud ovest francese che invece meriterebbe più tempo di quello che le possiamo dedicare. La visita non era nemmeno in programma, ci siamo alzati presto io e Marina, attratti dalla prospettiva di verificare se il croissant è davvero prerogativa nazionale indistintamente salvaguardata: anche in quest’angolo di Francia la regola è rispettata. È un mistero quello dei croissant francesi; li trovi dalla Normandia alla Provenza, e sempre ottimi, ma appena passi il confine di Ventimiglia spariscono dalla circolazione, raro esempio di nazionalismo gastronomico, sostituiti da stinte imitazioni nostrane, assolutamente non competitive…
Per una valutazione più approfondita della qualità ne infiliamo un paio in tasca e lasciamo l’hotel, passeggiando verso il centro. Dobbiamo camminare una ventina di minuti prima di renderci conto di quanto fossimo distanti….il campanile della chiesa di S.Martin ancora lontano e intorno l’elegante periferia, uffici moderni e l’Università, con ampi parchi ben tenuti. Da l’impressione di una città tranquilla e non molto grande, quel che si dice “una città a misura d’uomo….”
Più avanti entriamo nel centro (con relative cacche…) e veniamo raggiunti da Tina e Antonio, automuniti, disposti ad una rapida visita prima di partire per Lourdes. Non è facile parcheggiare nel giorno di mercato e vicino al mercato generale stabile, ma alla fine troviamo un posto e ci incamminiamo verso il Boulevard des Pyrénées, come suggerito dalla piccola guida prelevata in albergo. La città, in questa zona, conserva ancora l’eleganza (anche se ammodernata) che le deriva dai fasti fra ‘800 e ‘900 e fino al primo dopoguerra, quando divenne meta dei nobili di sangue e di pecunia di mezzo mondo, pare per il suo clima e le qualità terapeutiche delle sue acque….I ricchi hanno sempre avuto questa strana tendenza ad aggregarsi, ….come mosche sulla merda (per l’appunto…), facendo la fortuna delle varie località che di volta in volta dichiarano essere abbastanza “chic” da meritarsi la loro presenza. Pau vanta con orgoglio questi trascorsi, riportando la frase del poeta francese Lamartine: “Pau est la plus belle vue de terre comme Naples est la plus belle vue de mer” …..mi sa che ambedue (Pau e Napoli) hanno conosciuto tempi migliori….
La più bella “vista di terra” è quella che si dovrebbe godere dal boulevard, una balconata affacciata sui giardini che costeggiano la Gave, poco più in basso, e sullo sfondo i Pirenei….ma non mi pare così impressionante…Una teleferica (altro orgoglio cittadino), collega la stazione sottostante con il boulevard, che percorriamo un po’ in direzione del Castello. Questo è il più importante monumento cittadino, famoso per aver ospitato, con Pau capitale della Navarra, il re Enrico e la sua sposa Margherita di Francia, la regina Margot, nota più che altro per le sue sregolatezze “sentimentali”. In realtà pare che la corte abbia vissuto poco da queste parti, ma tant’è: anche da noi ogni paesino vanta una notte di Garibaldi trascorsa in qualche suo letto, e sarebbe interessante fare i conti per capire quante notti abbia vissuto Garibaldi. Probabilmente meno delle lapidi che gli hanno dedicato a memoria dei suoi pernottamenti…
Purtroppo il tempo stringe, non c’è tempo per il castello, torniamo sui nostri passi attraversando il mercato coperto e Tina si dedica un po’ al commercio locale; i souvenir gastronomici sono sempre i preferiti, ma non ricordo se alla fine abbia concluso l’affare….
Un breve salto “A l’Hotel” e poi via, direzione Lourdes, lungo la D817. La campagna intorno è veramente bella, punteggiata di boschi, con le ultime pendici dei Pirenei sulla destra che ci accompagnano: forse non è “la più bella vista di terra” che ci sia, ma sembra comunque un posto gradevole per viverci.
La bellezza dei luoghi si concretizza nella vista che ci accoglie all’arrivo in paese. Dalla strada alta sopra le case lo sguardo spazia verso il castello e il fiume che attraversa la cittadina: non capiamo ancora dove sia il santuario, ma la direzione verso cui si incammina la maggioranza delle persone è abbastanza chiara. In terra poi è tracciata una linea azzurra continua periodicamente segnalata come il “cammino di Bernadette”, un percorso di qualche chilometro proveniente dal paesino di Bartrès, rimesso in voga in questo anno giubilare, 150 anni dopo le apparizioni. Niente a che vedere con il Cammino di Santiago in quanto a lunghezza, ma qui molti dei pellegrini faticano a reggersi sulle gambe….
Il mio innato scetticismo si stempera un po’ grazie alla serenità che si respira ed alla bellezza dell’area che circonda il santuario e la grotta delle apparizioni. C’è anche un clima di efficiente organizzazione, derivante da più di un secolo di esperienza nella gestione dei visitatori: pare che più di 700 milioni di persone siano passate da questo luogo dagli inizi della sua notorietà.
"Que soy era Immaculada Councepciou" . Con questa frase in dialetto guascone, riportata da una ragazzina di 14 anni, da molti ritenuta un po’ suonata, è cominciata la notorietà di questo luogo. Solo quattro anni prima di quel 1858, il papa Pio IX aveva proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione, ed il fatto che Bernadette ne riferisse fu ritenuto miracoloso da alcuni (per la sua ignoranza…), sconcertante e strumentale da altri. Ma il dibattito teologico, già acceso all’epoca, fino ad essere considerato una concausa nel pronunciamento dell’infallibilità papale avvenuto 12 anni dopo (sempre per bocca dello stesso Pio IX), lasciò rapidamente spazio alla vera essenza di Lourdes: il rapporto fra malattia, fede e miracolo. E se dopo 150 anni di discussione ancora non se ne è venuti a capo…..dovrei capirci qualcosa io in mezza giornata? Meglio lasciare che ognuno rifletta pacatamente con gli strumenti propri e trovi qualche risposta, se ne ha necessità. Io, per conto mio, a proposito di miracoli e madonne lacrimanti, ricordo sempre quella battuta di Troisi in un suo film, quando invitato ad un pellegrinaggio all’ennesima madonna piangente declinava l’invito scusandosi : “ …è che sono un po’ triste in questo periodo, se rideva venivo pure io…..e pure per voi, se rideva era meglio, mica si poteva dire che era il legno a trasudare….(vedere questo link per rinfrescarsi il ricordo :
http://www.youtube.com/watch?v=EJLEbvkXMdA )
Per molti si tratta della classica irrisione atea alla credulità popolare, io ci vedo anche ( e forse di più) l’eterno bisogno di certezze che attanaglia l’uomo davanti al divino, che spinge San Tommaso a voler mettere la mano nel costato: il bisogno di una “prova sicura e inconfutabile” mediata dai nostri sensi e dalla nostra ragione. Come se questo fosse garanzia sicura di conversione….Gli stessi miracoli di Gesù, sono forse serviti a salvarlo dalla croce? E quanti, fra quelli che lo crocifiggevano, trepidavano in attesa o addirittura chiedevano “il miracolo definitivo”, il “salva te stesso” che avrebbe risolto ogni dubbio…e schiavizzato tutti. Ringraziamo Dio ( se ci crediamo…) per non aver scelto quella strada: conoscendoci, sapeva che non avremmo mai cessato di chiedere un miracolo nuovo, o di cercare un altro dio in grado di farcene di più grandi….
Per questo, mentre passeggio fra le centinaia di lapidi ex-voto che tappezzano le pareti della basilica superiore, la prima fondata sopra la grotta, e leggo le motivazioni per le quali sono state poste, motivazioni spesso taciute, sempre personalissime, avverto come la dimensione del miracolo possa esistere solo nell’individualità, nel segreto della personale esperienza, e lì, forse, trovare un senso e una ragione.
Fatico un po’ a scorgere questa individualità nei gruppi quasi segregati fra le ringhiere e i cancelli che delimitano le aree di sosta davanti alle “piscine”. Centinaia di persone, alcuni evidentemente malati o infermi, separati in maschi e femmine, all’aperto, seduti su panche protette da tettoie, in attesa del loro turno, intonano canti religiosi o recitano rosari. Passo con un certo disagio lungo la cancellata, incrociando qualche sguardo, io così evidentemente scettico, così autosufficiente nella mia temporanea salute…
Infondo non è molto diverso da quello che ci capita lungo le corsie d’ospedale, quando non siamo noi ad essere distesi nei letti; la stessa sensazione di disagio nell’incrociare lo sguardo malato degli altri, quasi la paura che ci possano sottrarre un po’ della nostra salute….
Chi adesso è seduto qui ha semplicemente scelto un medico diverso? Stanco o deluso dai tanti che ha già provato, per se o per i suoi cari, si è detto “proviamo anche questa”? O magari ha deciso di “consacrare” anche la sua malattia nel cammino di conversione della propria esistenza, e in questo, forse, già sta vivendo il suo miracolo….?
Riflessioni senza risposta, mentre acceleriamo leggermente il passo, forse per pudore, certo più per disagio, stemperato alla fine in quel vago senso di liberazione che generalmente proviamo all’uscita da un ospedale….
Il “cuore” di Lourdes è la grotta delle apparizioni. Me l’aspettavo molto più grande….e molto più affollata. Nel mio immaginario Lourdes era una moltitudine dolente in costante fluire dentro una grande grotta illuminata dalla luce di migliaia di candele votive, con una vasca d’acqua davanti alla Madonna nella quale ci si immergeva malati e qualcuno talvolta se ne usciva guarito, in tutto o in parte…Ricordo mio padre che raccontava quello che sua madre gli aveva riferito circa la sua esperienza, della quale lei ricordava principalmente l’imbarazzo per la semi-nudità (“i ma lasat apena la camisa”, diceva in dialetto, “mi hanno lasciato solo la camicia...”) ed il gran freddo, che per lei malata di tisi e “debole di petto” era il nemico principale, cosa che la induceva a dire, con una certa dose di umorismo ed autoironia, non so quanto volontari per lei fervente cattolica, : “l’è stat en miracol se so mia morta….( è stato un miracolo se non sono morta…)”
Quando arriviamo davanti alla grotta la fila di pellegrini, sul percorso transennato che costeggia la roccia fino all’ingresso della piccola cavità, è lunga solo qualche decina di metri, ma non ci accodiamo, preferendo ritirarci dietro le panche poste davanti alla statua della madonna. I fedeli passano sfiorando con la mano la roccia che trasuda acqua e sostano un attimo in preghiera davanti l’effigie di Maria; settecento milioni di mani hanno lisciato per più di un secolo quella roccia e per fortuna le preghiere sono di natura eterea e salgono al cielo, perchè se non fossero immateriali avrebbero già sprofondato da tempo questo luogo sotto il loro peso. Noi umani abbiamo la tendenza a figurare materialmente i nostri sentimenti: “..oggi sono giù…” oppure “..ho un peso sul cuore..” o ancora “ ..mi sento leggero come una piuma…”. Se davvero la felicità ed il dolore dell’umanità avessero un peso o una leggerezza diversi…. potremmo sperare di cambiare l’orbita terrestre: coltivare la felicità collettiva, alleggerire la terra dai nostri dolori e partire……ma partire per dove? A spasso nell’infinito in cerca del Creatore ? Più probabilmente l’avremmo via via appesantita con le nostre sofferenze e saremmo da tempo precipitati in orbite concentriche sul sole, …..il fuoco eterno….giustappunto….
Mi risveglia da questa visione mistica il suono di un cellulare…..quello di Antonio, subito ripreso tacitamente dallo sguardo di chi sosta qui davanti in preghiera. Ci allontaniamo rapidamente per non disturbare più di quanto la nostra perplessità già non abbia fatto.
Se qualcuno volesse visitare virtualmente il luogo, la tecnologia lo consente:
http://www.lourdes-radio.com/player_live/player_live_fr/player-token_fr.php

Entriamo nella Basilica del Rosario, quella inferiore, e rimango colpito dal volto di Maria che campeggia nell’abside, è tale e quale a Kate Blanchett….
Paragone dissacrante? E perché mai …se si sceglie l’iconografia del divino si deve correre il rischio della sua eccessiva contestualizzazione; se vogliamo discutere di rappresentazioni del sacro…trovo più dissacrante che una giovinetta ebrea di 2000 anni fa sia raffigurata con le sembianze di un’eterea fanciulla dai tratti ariani. L’insieme è comunque bello, con i variopinti mosaici a rivestire molte delle pareti. Mezzogiorno è passato da un pezzo, ci incamminiamo in cerca di un posto per mangiare i nostri viveri “ da asporto”, costeggiando la riva del fiume che attraversa l’area del santuario, la stessa acqua lasciata questa mattina a Pau, anche se, come si dice, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume…soprattutto quando il fiume scorre in senso opposto al nostro spostamento…Non troviamo indicazioni per aree da picnic, quindi ci fermiamo in disparte su una panca, forse infrangendo qualche regola. Un orientale passa verso l’uscita trascinando una grossa tanica d’acqua prelevata alle vicine fontane, ci chiediamo la finalità della cosa discutendo se si tratti di commercio, terapia o grande fede, senza trovare una risposta….forse tutte e tre le cose insieme: per quanto possano sembrare inconciliabili, la chiesa ha spesso mostrato la tendenza a volerle tenere unite, specialmente in luoghi come questo….
Scattiamo qualche foto al pittoresco quadretto costituito dal fiume con il santuario sullo sfondo e attraversiamo il ponte per tornare verso la città passando dall’altra riva. Lungo la sponda è allestito il Cammino dell’acqua, una serie di fontanelle con richiami a testi biblici improntati al tema dell’acqua e della sua funzione “salvifica”: apprezzo lo sforzo, che mi sembra di cogliere nei testi, di voler sottolineare l’importanza della conversione degli spiriti, piuttosto che il ruolo terapeutico del prezioso liquido che sgorga dai rubinetti di questo luogo…con buona pace delle taniche vuote e piene che viaggiano avanti e indietro lungo tutti i viali. Riattraversiamo il fiume e ci dirigiamo verso l’uscita del Recinto Sacro, il grande spazio cintato che contiene la grotta e tutte le basiliche, non ultima quella di San Pio X, un’enorme spazio sotterraneo praticamente invisibile dall’esterno perché ricoperto da un manto erboso: scelta opportuna a salvaguardia della bellezza del luogo, diversamente da quanto visto a Fatima per la nuova basilica. Entriamo un attimo, ma l’interno appare freddo nella sua modernità di cemento armato. In tutto il perimetro del santuario non abbiamo trovato nessun punto vendita dei classici “gadget”, santini e affini, cosa che ci lascia favorevolmente impressionati. La cosa si spiega non appena superiamo il cancello d’entrata: Lourdes è un unico immenso supermarket di oggetti sacri (e profani). L’opportuna scelta di “lasciare i mercanti fuori dal tempio” ha permesso il libero sfogo della creatività commerciale in tutti gli spazi circostanti. Sulla strada principale fa bella mostra il “palais du rosaire”, un enorme bazar con tutto ciò che può servire da souvenir ai pellegrini, e anche qualcosa di improponibile, come le candele da 20 kg e 2 metri d’altezza…entriamo in un bar lì di fronte dalla promettente insegna “espresso italiano”, gestito da tre figuri dall’aria un po’ losca: discutiamo l’ipotesi che si tratti di ex galeotti miracolati e convertitisi a Maria Immacolata….nel caso, comunque, i prezzi sono ancora da taglieggiatori..
Dopo la breve pausa ci ributtiamo nella folla che fluisce per tutte le vie della cittadina, dirigendoci verso il castello, dall’alto del quale si deve godere di una vista ragguardevole. Lungo il percorso incrociamo numerose comitive dirette ai luoghi “di Bernadette”, la casa natale, la chiesa parrocchiale, il cachot…..in quest’anno giubilare la visita è d’obbligo, sul selciato è tracciato un percorso che i gruppi seguono, recitando il rosario alcuni, schiamazzando la maggior parte. La nostra curiosità è attratta dal cachot, giusto perché non capiamo cosa sia. Lo chiediamo ad un volontario che organizza il traffico della visita fuori dalla porta, il quale ci spiega (un po’ stupito che non lo sappiamo…) che si tratta dell’abitazione (si fa per dire) dove viveva Bernadette con la famiglia all’epoca delle apparizioni. Cachot significa “cella”, perché era in pratica l’ex carcere del paese adattato a ricovero temporaneo per i “meno abbienti”: un monolocale di 16 metri quadri, su cui l’iconografia di Lourdes ricama parecchio, sottolineando la misera condizione famigliare dei Soubirous ed il fatto che Maria abbia privilegiato come sempre “uno fra gli ultimi” per manifestarsi: allora, come oggi, avrà certo avuto l’imbarazzo della scelta, se il criterio discriminante era ed è la povertà…..
La salita al castello è a pagamento, quindi non saliamo. Proviamo ad aggirare la collina, ma tutti gli accessi ai punti panoramici sono accuratamente chiusi o privatizzati da locali ed alberghi, quindi abbandoniamo l’assedio e ripieghiamo verso l’automobile, passando lungo il fiume davanti all’ingresso del santuario. Il pomeriggio è inoltrato ed è ora di tornare; sullo sfondo del prato la chiesa neogotica sovrasta la grotta, come la moltitudine dei pellegrini di oggi sovrasta il solitario dialogo fra la ragazzina e “quella là”, che così Bernadette definiva all’inizio la signora dell’apparizione….Da allora si sono moltiplicate le occasioni in cui il soprannaturale ha fatto irruzione nella storia in maniera analoga, sempre con i dubbi più o meno espliciti della chiesa ufficiale e l’adesione meno dubbiosa dei numerosi fedeli. “Vox populi, vox Dei”, dicevano gli antichi padri della chiesa….io, solitario e un po’ misantropo, tendenzialmente rifuggo la voce del popolo, che se non è borbottio confuso, sovente diventa perentorio urlo collettivo, raramente articolata riflessione, essendo quest’ultima, piuttosto, prerogativa degli individui in reciproco dialogo. Ed è a quel dialogo che preferisco tornare con il pensiero, transitando in auto davanti alla grotta di là dal fiume, a quel dialogo così uguale ai tanti segreti colloqui fra l’umano ed il divino che l’hanno preceduto e seguito, a quel dialogo così diverso da ogni altro, nella singolarità preziosa che ciascuno, spero, riveste agli occhi di Dio.
Per tornare a Pau scegliamo la D937, tanto per cambiare strada, ed è una scelta azzeccata. Il percorso si snoda fra le colline, costeggiando il corso del Gave.
Ad un certo punto, dopo una svolta, ci appare un grande edificio preceduto da un ponte ad una sola arcata: ha l’aria di meritare una visita e decidiamo di accostare. Scopriremo poi che si tratta del Santuario di Betharram, un luogo sacro alla cristianità ben prima di Lourdes, e anch’esso dedicato alla Madonna. Quindi le apparizioni di Maria da queste parti erano ben precedenti quelle della cittadina che abbiamo appena lasciato, e si racconta che la stessa Bernadette fosse solita frequentare questo luogo e confidarsi con il suo rettore. Questo paese era già tappa del cammino verso Santiago nel XIV secolo, ed in seguito il santuario che vi sorse divenne uno fra i primi di Francia in quanto a visitatori. Poi l’apparizione di Lourdes ne ha decretato la progressiva decadenza, ed ora sul piazzale davanti alla chiesa ci siamo solo noi, a guardare il portone chiuso. Per la verità dal ponte arriva un altro gruppo di turisti francesi che nota la nostra perplessità davanti all’ingresso sbarrato e ci avvisa che l’orario è passato. Marina intavola un dialogo con la signora del gruppo, che inizia a tessere le lodi del luogo, fino a dichiarare che “è più bella di Notre-Dame di Parigi”, indicandoci poi l’inizio del Calvario, una stradina di circa un chilometro che risale il fianco della montagna, costellata da cappelle imponenti (quasi piccole chiesette) in stile romanico, fino alla sommità, dalla quale, dice, si gode una vista bellissima…..
Non è che abbiamo molto tempo, però l’idea di un ultimo sguardo ai Pirenei che avremmo dovuto esplorare ci fa decidere per la salita. Mentre imbocchiamo la stretta strada che si inoltra nel bosco un piccolo cartello aggiunge interesse all’escursione, preannunciando la vendita di “fromages de chevre”: io e Tina programmiamo all’unisono un acquisto da portarci in Italia, mentre Marina inizia subito a chiedersi preoccupata dove cavolo potremo trasportarli per le prossime 24 e più ore, considerato il profumo che notoriamente emanano. In breve arriviamo alla “croix des Hauteurs”, un crocifisso piantato sull’altopiano; le altezze alle quali si riferisce il nome sono probabilmente le cime lontane che si profilano nella foschia, in controluce al sole che inizia a calare, in un susseguirsi di quinte sovrapposte, fino a confondersi con il cielo. Dietro il crocifisso, piantata nella corteccia di un albero, riappare la conchiglia di Santiago, ad indicare la strada ai viandanti: questo cammino continua a chiamarci, forse dovremmo rispondere…certo non partendo da qui! Dev’essere un qualche ramo laterale e periferico del percorso ufficiale, probabilmente proveniente da Lourdes.
Piuttosto delle sconfinate “mesetas” spagnole, questo saliscendi di colline e boschi ha l’aria escursionistica famigliare delle nostre valli: ci fermiamo un momento sotto un albero a guardare il panorama, e ci scattiamo una delle poche foto di gruppo della vacanza, ora che siamo davvero alla fine, con tanto di autoscatto e corsettina per prendere posto. Nessun monumento alle spalle, niente che riconduca al viaggio, solo noi quattro che ridacchiamo con il sole che ci prende di traverso: se fra qualche anno rivedremo questa foto, sarà impossibile distinguere il posto da uno dei tanti dove siamo stati, a pochi chilometri da casa, nei pomeriggi estivi della nostra vita. Sapremo solo che un giorno, da qualche parte, siamo stati così…e davvero non è poco.
E adesso via, a caccia del formaggio di capra, prima che sia troppo tardi. Le frecce indicano un casolare poco lontano, al quale arriviamo da una strada sterrata, parcheggiando l’auto sull’aia. L’inizio non è molto invitante: un vecchio sta squartando una capra sopra un piano di pietra addossato al muro, tanto per ricordarci che Heidi non abita più qui. Certo non pretendevamo che le caprette ci facessero ciao, però un piccolo sforzo per corteggiare le voglie poetico-bucoliche del turista cittadino potevano farlo…..
Il “Vecchio dell'alpe” (che così si chiamava lo scorbutico nonno di Heidi, e questo ha l’aria di assomigliargli) ci indica l’ingresso della stalla, dicendo qualcosa che non capiamo bene a proposito di una “Maman”, suono universalmente foriero di dolcezze, verso la quale io e Tina ci dirigiamo un po’ rincuorati, evitando di soffermarci troppo con lo sguardo sui quarti posteriori della capra e sul coltello sanguinante nelle mani del macellaio….Marina mi pare preferisca aspettare in auto: non ho sentito il “click”….ma credo che abbia anche chiuso le portiere.
La stalla non ha fatto molti progressi dai tempi di Heidi….ci mettiamo un po’ ad abituare gli occhi all’oscurità, e alla fine, tra un “bonjour” e l’altro, distinguiamo un bambino di 4 o forse 5 anni (Peter?) intento, innegabilmente per quanto improbabilmente, a mungere le capre: in una mano tiene il terminale con le tettarelle pneumatiche (evidente segno di progresso tecnologico), e nell’altra mano ….un biberon per se! Forse è un Sommelier in erba, ad ogni mungitura deve provvedere ad assaggiare il prodotto prima della commercializzazione…..ma a giudicare dal resto dell’ambiente circostante non pare proprio un posto da sommelieres. Ci accorgiamo di avere la faccia pericolosamente all’altezza del posteriore delle capre posizionate sopra il rialzo di mungitura, quindi ci dirigiamo rapidamente ad un’altra porta verso la quale ci precede il bambino, aperta su un cortile posteriore dove sta lavorando un giovanotto, che però non ha intenzione di scendere dal trattore…dopo uno scambio di battute circa la “maman” e la “maison” (giusto quello ho capito….) ci pare di comprendere che bisogna aspettare, ma alla fine arriva la padrona di casa ed iniziamo la compravendita.
La signora sembra orgogliosa del suo prodotto, e la cosa non guasta, anche se non è di per sé una garanzia: c’è gente convinta di valere abbastanza da fare, che so…., il Presidente del Consiglio….ed è convinta di farlo benissimo…ma torniamo ai formaggi che è meglio.
Il locale di produzione è una specie di oasi felice, dal punto di vista igienico, rispetto all’area circostante, ma essendo attiguo alla stalla la lotta all’immigrazione clandestina di parassiti e germi è persa in partenza….ne avremo una conferma in seguito. Comunque sono probabilmente salvaguardate le norme di produzione e, se non altro, le apparenze. Il prodotto è in bella mostra sul banco di lavoro e nella cella di stagionatura: piccole caciottine cilindriche di circa 150 grammi; la casara ci spiega (rigorosamente in francese) le tre tipologie di maturazione di cui dispone al momento, che da una rapida disamina possono essere così riassunte: abbastanza puzzolente, puzzolente, molto puzzolente. Il resto delle specifiche tecniche su cui si dilunga la signora mi sono completamente oscure…Io e Tina procediamo ad un consulto, non molto rapido, sul genere e numero da acquistare, e alla fine ne prendiamo due per ogni tipo di puzza, per la felicità di Marina che intanto è scesa dalla macchina e osserva in apnea la trattativa. Sarebbero 12 euro, ma ci incasiniamo talmente fra monete e banconote che alla fine la signora ne prende 10, esausta per l’attesa e con altra gente dietro che aspetta…..i soliti italiani, avrà pensato….
Torniamo allegramente sull’aia e risaliamo in macchina: mentre voltiamo ho l’impressione che la capretta squartata ci faccia ciao con la zampa pendula….ma sarà stato lo spostamento d’aria.
Lungo la discesa incrociamo il cartello indicatore per il “calvaire” e decidiamo di dare un’occhiata anche a quello, già che ci siamo. La strada finisce in un largo spiazzo pianeggiante in mezzo al bosco; ad una estremità la stazione della crocifissione, con statue a misura umana, e di fronte la cappella della resurrezione.
Gesù appeso alla croce come i due ladroni, Maria e Giovanni ai suoi piedi, ed intorno le lapidi del piccolo cimitero dei religiosi che reggono il santuario (almeno credo…). Hanno scelto di aspettare all’ombra del calvario, piuttosto che là di fronte intorno al Cristo risorto, forse per non peccare in presunzione, forse perché l’esperienza umana, di cui la lapide è certa conclusione, ha più familiarità con la croce che con la resurrezione….La statua del Cristo risorto sopra il timpano della cappella è stata prodotta dallo stesso autore che ha scolpito la statua di Maria nella grotta di Lourdes….una bella responsabilità per due mani sole, e due destini così diversi per le sue opere: la Madre miracolosa ammirata, anche in quest’ora, da centinaia e forse migliaia di occhi in adorazione, il Figlio risorto relegato invece in questo bosco, un po’ in disparte là sul tetto, con unici testimoni, nell’incipiente imbrunire, questi quattro turisti di poca fede. E sì che la sua pasqua, rappresentata nell’opera, è l’unico vero miracolo che possa dare un senso a tutti gli altri, soprattutto alle guarigioni attribuite alla Madre, dato che queste, senza resurrezione, altro non sarebbero che un rinvio più o meno lungo del destino finale che ci ricordano le lapidi la in fondo, verso le quali stiamo tornando per risalire in vettura. Un conoscente di Marina, spesso citato dalla sua famiglia nei momenti di allegria conviviale, amava ricordare che “la vita è una lunga agonia fra la nascita e la morte…”, riciclando un motto che pare fosse shakespeariano….lascio a voi la riflessione che ne consegue, a proposito di malattia, guarigione, morte e resurrezione, dato che si fa tardi e dobbiamo tornare in albergo. Riprendiamo la D937 verso Pau, dove arriviamo rapidamente; il resto della serata se ne va per la cena: prima proviamo il ristorante suggerito dall’albergatrice, fermandoci al listino dei prezzi fortunatamente esposti all’ingresso (decisamente non siamo più in Portogallo…), poi ripieghiamo sul TexMex a fianco delle camere, dove fanno uno sforzo e decidono di servirci nonostante l’ora tardissima (saranno le otto e mezza…..…nottambuli ‘sti francesi!). Così l’ultima cena della nostra vacanza si conclude mangiando messicano in una tavola calda francese, già pensando agli ultimi 1000 e passa chilometri che ci aspettano domani: quindi niente Pau by-night e a letto presto. Le immagini della giornata sono tante e ricche di stimoli; ci ripenso in quei 30-40 secondi che di solito, secondo Marina, impiego ad addormentarmi, ma sono davvero pochi per una rivisitazione organica: forse, mi dico, dovrei scrivere un diario di questo viaggio….

28 agosto: "per la stessa ragione del viaggio....."

Oggi davvero comincia il ritorno, o forse no. Partire e tornare sono concetti ambigui, legati all’origine e alla destinazione del percorso. Ulisse partì da Troia per tornare ad Itaca, ma a che punto del viaggio si può dire stesse davvero tornando? Siamo partiti da Brescia per tornarci…quindi stiamo tornando dall’istante dopo che il nostro aereo è decollato, anzi no, da quando abbiamo chiuso la porta di casa dietro le nostre spalle….
Cacchio di riflessioni, direte voi, da fare mentre si è in vacanza. Ma cosa deve fare un pover’uomo seduto in una scatola di lamiera in movimento per le successive 8-10 ore?
Va bene, diciamo che stiamo tornando, se non altro per una questione di punti cardinali: si va dall’ovest all’est, verso la terra natale. Però la destinazione di oggi è Pau in Francia, oltre i Pirenei, luogo mai visto, al quale quindi non possiamo dire di tornare. Allora siamo partiti da Santiago per andare a Pau, e non stiamo tornando….Insomma non se ne esce, meglio concentrarci sull’essenza della giornata, così ben definita da De Andrè nella sua canzone dedicata ai gitani: “per la stessa ragione del viaggio, viaggiare...”. Questo sarà il motto del giorno…..e chissà che non si incontri un ciclope, o la maga Circe, a rendere epici questi novecento chilometri di asfalto che ci separano dalla destinazione, verso la quale siamo partiti…mentre stiamo tornando…..ma vaffan’!
Fortunatamente non faccio queste riflessioni a voce alta, perché disturberei le signore che appena entrati in autostrada sono cadute in profonda meditazione…Sarà che la sveglia è stata precoce ( rispetto alle abitudini acquisite in queste settimane..), ma non mi pare siano disposte a conversare. Forse è questione di digestione, dopo il buffet di colazione. Pensavamo di essere i primi clienti in piedi, invece: sorpresa! Un pullman di olandesi o di qualche simile nazionalità, in procinto di partire (o tornare?) per non si sa dove. Niente stimola di più l’appetito di un pullman di olandesi anzianotti e ben pasciuti che attornia il buffet come uno sciame di cavallette: nasce lo spirito di competizione e pensi che non puoi farti certo mancare quella fetta di pane tostato che ha nel piatto la signora, con sopra…..ma che roba è? Potrebbero essere uova strapazzate con la marmellata…..riempiamo borse e zainetti di pane, salumi e formaggio e usciamo, prima che qualcuno arrivi con i crauti…
Alle otto, o giù di li, siamo già in viaggio. Ottimo albergo, speso anche poco, da tornarci…magari per fare la doccia e una bella dormita dopo 200 chilometri a piedi. Per ora siamo viandanti automuniti, diretti verso La Coruna lungo la AP9. Terra di boschi e pascoli, questa Galizia: mancano le cime innevate per sembrare alla Svizzera. In prossimità delle coste atlantiche deviamo decisamente verso est, sulla A6 in direzione Lugo-Ponferrada. L’autostrada sale gradatamente di quota, costeggiando la Sierra de Cova da Serpe: nome intrigante, che stimola la mia curiosità. La leggenda racconta di una storia d’amore e morte, fra un povero giovane contadino e la ricca figlia del castellano locale. Rifugiatisi fra questi monti per fuggire le ire del padre, finiscono nella grotta di un’enorme serpe: nella lotta lui salva lei…e muore….C’è sempre ‘sto serpente fra l’uomo e la donna che ogni tanto ricompare a spaccare i maroni….sarà pur successo qualcosa nella notte dei tempi, se ancora si tramanda… O sarà la solita rappresentazione fallica….Freud ci andrebbe a nozze, con questa leggenda: sul fatto poi che nella lotta fra l’uomo e il “serpente” sia sempre il primo a soccombere, non ci sono dubbi….
Più avanti costeggiamo Lugo e la strada sale ancora, finchè finiamo nella nebbia e ne usciamo al di sopra. Strette vallate scavalcate da ponti autostradali e pochi borghi abitati, ricorda il nostro appennino fra Parma e LaSpezia. Stiamo attraversando le terre del “cammino francese”, nel suo tratto più frequentato, il più vicino alla meta e, stando ai racconti, anche il più bello “naturalisticamente”. Qualche decina di chilometri a sud dell’autostrada c’è il monastero di Samos, di cui ci ha parlato Gianna lo scorso anno, reduce dalla sua esperienza meditativo-escursionistica. È una delle tappe più utilizzate dai pellegrini, anche se chiede una deviazione dal percorso. Ancora qualche decina di chilometri e l’autostrada si incunea fra la Sierra de Cauriel e la sierra de Ancares, transitando vicino a Piedrafita e al Cebreiro, il valico da cui si può dire inizi il cammino galiziano verso Santiago, con la sua antica chiesa, la più antica dell’intero percorso. Il paesaggio è decisamente montuoso: dev’essere un tratto abbastanza impegnativo per i viandanti….
Entriamo nella regione de El Bierzo, lasciandoci alle spalle le montagne e la Galizia e traversando la piana di Ponferrada. Qui il lato “turistico” del Cammino emerge in tutta la sua evidenza: sull’autostrada portali indicatori segnalano l’uscita per l’inizio del percorso a quanti arrivano con i mezzi. Contrasta un po’ con la dimensione “intimista” che si penserebbe di associare a questa esperienza….però i locali si saranno rotti di spiegare la strada e avranno pensato all’aspetto pratico della questione: seguite i cartelli e non rompete….
Abbiamo fatto circa 250 chilometri, ne mancano ancora un sacco….chissà cosa penseranno quelli che vanno a piedi nell’altra direzione: più avanti ne incroceremo, dalle parti di Burgos, lungo un viottolo che costeggia l’autostrada, alcune rade pianticelle a dare un poco d’ombra e la sequenza delle mesetas da attraversare verso Santiago…..
Prima però costeggiamo Leon e proseguiamo in una pianura assolata che pianura non è, dato che siamo a sette-ottocento metri di quota. Ora stiamo viaggiando sulla A-231, “autovia Camino de Santiago”, nel caso qualche pellegrino si perdesse, può sempre seguire l’autostrada…. Prima di Burgos decidiamo per una sosta, un po’ lontano dall’asfalto, su cui fin’ora non abbiamo incontrato aree apparentemente attrezzate….Usciamo a Melgar e ci fermiamo in un viottolo vicino al Rio Pisuerga: nome appropriato per il principale motivo della sosta. Comunque, già che ci siamo, si mangia: facciamo onore al buffet dell’hotel Congreso seduti in vettura, dato che non si può dire sia propriamente un’area da pic-nic quella che abbiamo scelto, ma oggi è così, poco tempo da perdere e dritti alla meta. Fin’ora non c’è capitato niente di epico, per vivacizzare la nostra odissea; e nemmeno si può dire che abbiamo realizzato “la ragione stessa del viaggio”, in questo frenetico trasferirsi da un punto all’altro del globo. Guardo là in fondo la striscia del guardrail autostradale che taglia la pianura, e le macchine passare dietro veloci: forse quel che cercano i viandanti è proprio un po’ di pace, una pausa dai ritmi della modernità, assaporando per un breve intervallo lo spirito “gitano” del viaggio fine a sé stesso…..
Ecco…. settanta passi al minuto, al ritmo del nostro cuore, sentendolo variare il tempo ad ogni nostra accelerazione, e darci così la misura dello spazio percorso. Distanze misurate in battiti del cuore, per riportare il mondo ad una “dimensione umana”….. quella dell’unico vero viaggio, fra nascita e morte, scandito dalla metrica musicale del nostro petto.
Certo, bel mondo di vagabondi sarebbe….tutti a zonzo….al ritmo del miocardio! Riflessioni inconcludenti: se non arriviamo a Pau per le sette e mezzo rischiamo di trovare chiuso l’albergo, e ancora non siamo a metà strada…sarà meglio salire in macchina ed affidarci al ritmo del motore, lasciando indietro i pellegrini che procedono (per l’appunto….) “in direzione ostinata e contraria” (tanto per continuare le citazioni del poeta del giorno).
Da Melgar prendo il volante della Picasso per la prima volta (salvo un breve precedente a Portimao): Antonio schiaccia un pisolino, torniamo in autostrada e via verso la Francia.
Dopo Burgos deviamo a nord-est, sulla AP-1, l’”autovia del Norte”. Lungo la strada incontriamo portali in arabo che indicano la direzione verso la Francia: “a nemico che fugge, ponti d’oro”, si sa mai che perdano la rotta e decidano di fermarsi qui…
Più avanti entriamo nei Paesi Baschi, e i portali sono altrettanto incomprensibili di quelli in arabo. Euskadi è il nome di questa terra ed Euskera la lingua che ci si parla: cos’abbia da spartire con lo Spagnolo non lo so…… più o meno quello che ha da spartire il dialetto di Lumezzane con il sardo. Breve saggio di lingua Basca, a introduzione dell’argomento in wiky, a cura dei Baschi:
“Euskal Autonomia Erkidegoa, Euskadi eta gutxiagotan Euzkadi, Euskal Herriko mendebaldeko zatia da eta Espainiaren iparraldeko Autonomia Erkidego bat da osatzen du 1979. urteaz geroztik.”
Chiaro il concetto? L’unica parola comprensibile in tutto il testo è “autonomia”: è evidente che si tratta di un argomento su cui non ammettono dubbi e malintesi....
Il basco è l’unica lingua non indoeuropea che si parli in Europa, ed ancora non si è capito bene da dove cavolo arrivi: alcune teorie la considerano un relitto di una lingua preesistente, un fossile delle prime lingue parlate sul nostro continente. Non ci fermiamo nemmeno per un caffè, nel dubbio di fare confusione come al solito, ma se ci tenete, ecco un breve saggio in caso di necessità:
Kafe hutsa nahi nuke = Vorrei un espresso
Kafe ebakia nahi nuke = Vorrei un macchiato
Kafesnea nahi nuke = Vorrei un caffellatte
Ah, dimenticavo....quando uscite salutate con un “Kaixo!”: vuol dire ciao, ma vale anche come esclamazione in italiano, nel caso il caffè facesse schifo.....
Costeggiamo Vitoria-Gasteiz, la capitale Basca, procedendo fra colline, altipiani e basse catene montuose, fino a girare in direzione nord sulla “autovia de Etxegarate” (bel nome vero?) e finire imbottigliati nelle vicinanze di Tolosa (non quella francese.....). L’autostrada dev’essere un omaggio all’autonomia Basca da parte dello stato centrale, della serie “siete autonomi? Cavoli vostri...le strade pagatevele voi...”. In pratica sembra una strada statale promossa di ruolo senza averne diritto, e sembra che tutto il traffico verso la Francia sia finito qui....
Procediamo lentamente incolonnati fra montagne coperte di conifere, in pieno paesaggio alpino, con la strada che degrada verso il mare di San Sebastian, lontano miraggio a questa andatura. A Tolosa decidiamo che “è meglio uscire e prendere la statale”...ignari del fatto che non esiste: questa è l’unica strada che porta verso la Francia. Rifiutiamo caparbiamente le indicazioni verso l’autostrada e gironzoliamo un po’ per il paese, imboccando alla fine una strada che lascia l’abitato e si inerpica tra i monti: non sembra proprio che vada a san Sebastian, proviamo a chiedere a un passante che (in spagnolo) ci dice che di là si va per la Navarra. Rischiamo la fine di Orlando a Roncisvalle, meglio tornare sui nostri passi e reimmetterci mestamente nella colonna che lentamente discende la valle. Antonio riprende le redini del mezzo, si è già riposato abbastanza, e a questa andatura si stanca ancora di più a non guidare.... Alla fine, molto alla fine, arriviamo al classico casello che inutilmente stramalediciamo: dopo non è certo meglio; comunque superiamo il confine e siamo in Francia, è già qualcosa, ma sono già le cinque e abbiamo più di 130 chilometri da fare, che alla media di 20 chilometri all’ora fanno circa....6 ore...Cadiamo nello sconforto e cominciamo il pericolosissimo tira e molla sulle possibili vie alternative, tipo Benigni e Troisi fermi al casello ferroviario: “...e se prendessimo per di la....?”. Antonio mi implora di trovare una via alternativa, ma la mia mappa ventennale mi è di nessun aiuto, per la dimensione delle vie indicate faccio quasi fatica a vederle. Comunque alla fine usciamo a San Jean pensando di dirigerci fra i monti e circumnavigare Bayonne: fortunatamente non troviamo le indicazioni per St. Pee (chissà dove finivamo, probabilmente nel 1492 come nel film...) e decidiamo di costeggiare verso nord sulla statale, sempre incolonnati, ma almeno il paesaggio è gradevole. A un certo punto si vede il mare vicino, dalle parti di Bidart, spiagge e gente che si tuffa fra le onde: Tina si fermerebbe direttamente qui, a dormire sotto le stelle, però si limita a dire “che bello!” e accetta tacitamente di continuare il viaggio, che fortunatamente procede ad andatura più sostenuta, finchè imbocchiamo “la pireneenne”, l’autostrada verso Pau, assolutamente deserta; forse rispettiamo i tempi massimi di arrivo all’albergo. Ci fermiamo giusto per fare rifornimento di gpl e nell’area di sosta incrociamo di nuovo il cammino di Santiago alla sua origine: un monumento al viandante indica la direzione verso Roncisvalle a quanti provengono da nord, da Mont de Marsan: cominciare da qui è davvero un’impresa, o comunque bisogna avere un bel po’ di tempo a disposizione anche solo per pensare di poterci provare...noi c’eravamo dieci ore fa, chi s’incammina ora da qui ci arriverà fra un mese: il medioevale camminatore verso Santiago aveva di certo un’altra misura del tempo e dello spazio...
L’autostrada costeggia La Gave de Pau, in una pianura ondulata coperta da boschi e campagne “grasse”, di quell’erba verde che immagini adatta a sfamare mandrie di bisonti. É la stessa acqua che bagna Lourdes e scende verso il mare, chissà quante preghiere sta trascinando placidamente all’oceano...ma questa è storia di domani.
Poco dopo le sette arriviamo all’hotel, che per non sbagliare si chiama “A l’Hotel”, ma non ha molto dell’hotel. È la classica struttura prefabbricata molto diffusa in Francia, tipo “campanile” e affini, frequentata da lavoratori in trasferta e turisti squattrinati come noi. Comunque ha un’aspetto più che decoroso, per quel che ci serve: però pagamento anticipato “s' il vous plait”.....si sa mai che tagliamo la corda all’alba, siamo italiani.....
Accanto all’albergo c’è una tavola calda TexMex, dopo ci faremo un salto, ma prima un po’ di relax da queste dieci ore seduti a fare niente. I 900 chilometri ci hanno provato nel fisico e nello spirito, per domani era prevista un’escursione fra i monti (in auto) nel parco dei Pirenei, alla quale abbiamo concordemente rinunciato già dalle parti di Biarritz: meglio pochi chilometri prima del salto finale verso casa, ci concentreremo su Lourdes. Tina e Antonio rinunciano anche alla cena, daranno fondo agli ultimi avanzi direttamente in camera, mentre io e Marina tentiamo invano di farci dare qualcosa alla tavola calda. Alle nove di sera? Non siamo mica in Spagna o in Portogallo....se vogliamo c’è una specie di Mac (mi pare si chiamasse Quick..) la di fronte che fa servizio fino a mezzanotte, anche da asporto. Sarà il nostro secondo contributo alla cucina globalizzata, però non è un McDonald, fingo che sia più buono il panino al formaggio che sto mangiando e rincasiamo felici, o almeno sfamati.
Alla fine conquistiamo il letto ed eccoci qui: “per la stessa ragione del viaggio” abbiamo viaggiato, o per arrivare a quest’albergo nella periferia di Pau, “mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia...e Francia” verrebbe da dire, come Paolo Conte....finale un po’ malinconico e romantico, inadeguato al clima, che non minaccia rovesci, al massimo un po’ d’umidità di fine estate, ma consono al senso di conclusione che ci accompagna....
Un ultimo pensiero ai ginnici pellegrini di Santiago, domani ne vedremo d’altro genere, sulle strade di Lourdes, e chissà se riusciremo a trovare un nesso fra i due....

27 agosto: San Giacomo, vichinghi e pellegrini....

Oggi lasciamo il Portogallo, la nostra vacanza volge al termine, ma ci separano da casa ancora più di 2000 kilometri. Il programma della giornata è tutto nel trasferimento a Santiago de Compostela, con visita alla città nel pomeriggio-sera, ….sono poco più di 200 chilometri, dovremmo arrivare presto. Non abbiamo previsto soste lungo la strada, vedremo come và. Ormai siamo in quella fase della vacanza che precede il ritorno, quando l’ansia turistica è soddisfatta e subentra una vaga sensazione di leggerezza, il “prendila come viene” che già ci ha accompagnato nella giornata di ieri, a zonzo per Porto…
Prima di lasciare questa simpatica città facciamo un salto in un market locale, per rimpinguare le riserve alimentari e fare scorta (Antonio) di Vino di Porto da regalare al ritorno: non sarà nobile come quello comperato alla Caves de Taylor, ma la sostanza è la stessa, è sempre “originale dal Portogallo”: sfido i destinatari ad accorgersi della differenza…
Partiamo presto, lasciando il nostro hotel Antas nell’ennesima mattina di sole di questa vacanza meteorologicamente fortunata, anche se la luce del nord portoghese non è la stessa dell’Algarve (oggi almeno non c’è nebbia…). Imbocchiamo la A3 in direzione Nord, verso la Galizia spagnola, percorrendo la regione del Minho portoghese, in un paesaggio di colline coperte da ricca vegetazione. Questa zona meriterebbe forse più attenzione: lasciamo fra le alture a destra Guimaraes, l’antica capitale, città dove crebbe il primo re portoghese Dom Alfonso Henriques, celebrato come precursore di tutte le dinastie regnanti successivamente. A leggere la storia di questi luoghi si capisce come sia sottile il confine fra Spagna e Portogallo, alle sue origini, e tutto sommato incidentale che la storia abbia preso poi questo corso, dividendo le due nazioni della penisola iberica.
Costeggiamo Braga e proseguiamo verso nord, scavalcando dopo circa un ora il fiume Minho, ed il confine con la Spagna: fine del Portogallo, fine del gas….
Non si offendano i lusitani, non è certo questo (il gpl…) l’unico rammarico nel lasciarli, ma il viaggio ci chiama, altre mete ci attendono e la voglia di casa un po’ si fa sentire. Ci voltiamo per un ultimo arrivederci, e in un attimo il confine è già sparito alle spalle.
Da qui inizia la Galizia, e la regione delle “rias”, i lunghi fiordi che portano le onde dell’oceano a spegnersi placidamente fra le colline coperte di boschi: un paesaggio indubbiamente “nordico” ed inatteso, almeno per me che della Spagna conservavo un’idea di flamenco e corride nelle arene assolate….
Costeggiamo dall’alto la città di Vigo, scendendo poi a scavalcare Pontevedra e la sua “rias”, lungo “l’autopista del Atlantico”: ormai mancano poche decine di chilometri a Santiago, ma visto che siamo in anticipo ed è quasi ora di pranzo, decidiamo per una deviazione. Le nostre guide sui luoghi non sono molto dettagliate, essendo quella del Portogallo ormai inutilizzabile, ma riportano qualche informazione sul cammino di Santiago e le sue tappe, citando Padron, un paesino qui vicino, come una di queste. La leggenda narra che la barca con le spoglie dell’apostolo Giacomo sia approdata nell’antica città romana di Iria Flavia, dopo aver risalito la ria de Arosa e l’estuario navigabile del fiume Ulla, su cui si affaccia la cittadina, assicurando poi l’ormeggio ad una grossa pietra, un “pedron” in galiziano, in seguito venerato a tal punto da far cambiare nome alla città, divenuta con il tempo Padron. Dell’antico nome di Iria Flavia rimane traccia nella Collegiata de Santa Maria de Iria, vicino al paese. Questo luogo era frequentato dai fedeli in cammino da e per Santiago, i quali secondo la guida raccoglievano qui, sulla riva dell’oceano, le conchiglie che anche ora li identificano come “pellegrini di Santiago”. Mi sorge il ghiribizzo di imitarli, scendere al mare per cercare una conchiglia da regalare a mia figlia che da otto mesi ha iniziato un “cammino” tutto suo…
Quindi lasciamo “l’autopista del atlantico” dalle parti di Caldas de Reyes, perché secondo la mia cartina, vecchia di 20 anni e con l’autostrada ancora segnata “in costruzione”, dovremmo imboccare la via per Padron. In realtà finiamo sulla PO-8001, una bella strada che risale fra i boschi e scavalca le colline per ridiscendere in prossimità di Catoria, attraversando l’estuario del fiume Ulla. Nelle acque vicino al ponte galleggiano due piccole imbarcazioni vichinghe….ma siamo in Spagna? Proseguiamo per qualche chilometro lungo la costa nord della ria de Arosa, cercando un approdo adatto ad una sosta e alle conchiglie, ma il mare qui ha più l’aspetto di un laghetto alpino, con pinete e boschi tutto intorno e nessuna spiaggetta o scogliera che lasci supporre la presenza di un paguro, figuriamoci le Cappasante di San Giacomo…
Alla fine torniamo sui nostri passi (anzi …sulle nostre ruote…) verso il ponte: se c’erano delle barche vichinghe ci sarà un porticciolo o qualcosa del genere, e poi Tina ricorda di aver intravisto un sentiero vicino a dei ruderi…Scopriamo di essere capitati in uno dei “siti storici” più famosi di tutta la Galizia: la Torres do Oeste, una sentinella di pietra posta a difesa dell’interno, continuamente minacciato dagli invasori provenienti dal mare e risalenti il corso del fiume. Qualche cooperativa di giovani locali deve aver tentato un “recupero” del luogo, organizzando spettacoli storici (da cui le navi vichinghe ormeggiate): restano alcune foto sulle bacheche e un’improbabile biglietteria in disuso. Spiace per l’iniziativa, ma il fallito rilancio credo abbia giovato al luogo, che gode adesso di una pace invidiabile …con il vantaggio delle recenti e ben tenute strutture d’accesso.
Sentieri sopraelevati e ponticelli si inoltrano nella laguna, fino ad un piccolo rialzo in riva al fiume-mare-oceano che qui si mescolano. Pare che il luogo sia di origini romane, ma abbia poi conosciuto la sua massima espansione come castello a difesa dalle invasioni normanne. Oggi rimangono pochi resti di alcune torri, ed una chiesetta dedicata a San Giacomo: potrebbe essere il luogo giusto per una conchiglia di Santiago, ma l’acqua è poco salmastra e il bagnasciuga è coperto da vegetazione verdeggiante, non è posto da molluschi, forse va bene per le anguille….
Torniamo verso il parcheggio dove all’arrivo avevamo consumato un po’ di viveri e scaricato i serbatoi e troviamo qualche piccola comitiva in arrivo: il posto non è poi così dimenticato come sembrava.
Risaliamo in macchina e puntiamo verso Padron, senza conchiglie, in cerca di un caffè. Percorriamo la nuovissima VRG 1.1, fra boschi e prati in mezzo alle colline, e arriviamo rapidamente al paese, parcheggiando proprio dietro un chiosco di informazioni turistiche, dove campeggiano mappe del “cammino”. Marina entra per raccogliere qualche informazione, perché alle due signore è venuta l’idea di percorrerne un pezzo, giusto per dire “ce l’ho”, e vorrebbero capire prima come funziona.
La ragazza spagnola non ha molto materiale per italiani, ma alla fine recupera un paio di opuscoli, uno sul “cammino portoghese” (dove siamo ora) e l’altro su quello francese…chissà non possano venire utili in futuro. Nel bar rifacciamo un po’ di confusione con i nomi del caffè macchiato, avevamo appena imparato quello portoghese e adesso siamo di nuovo in Spagna: la qualità è comunque peggiorata, o forse è colpa del locale che ha l’aria un po’ dimessa. Risaliamo in vettura e puntiamo dritti alla meta, autostrada per Santiago e via.
In periferia cominciamo ad armeggiare con le cartine di Google per capire come arrivare al nostro Hotel Congreso, nella zona a sud della città, ma dopo un po’ di dubbi e perplessità decidiamo di abbandonare la tecnologia e tornare ai vecchi sistemi di una volta: siamo a Santiago, città dei pellegrini, facciamo come gli antichi viandanti e chiediamo informazioni……
Due ragazzi sanno dov’è l’albergo, ma spiegarlo a degli italiani non è proprio facile, visto che non è nemmeno vicino, però ci mandano nella direzione giusta e alla fine arriviamo. In questa terra di ospizi per pellegrini pare che ci siamo prenotati l’hotel migliore della vacanza, alla faccia dei camminatori di Santiago….forse il giudizio è favorevolmente falsato dalle dimensioni dei giacigli che troviamo in camera: un matrimoniale formato da due letti affiancati, ognuno da una piazza e mezza abbondante. Abbiamo dormito in meno della metà per molte delle notti precedenti! Marina pregusta già il comodo riposo, ma poi le sovviene un dubbio: come farà a scalciarmi per zittire il mio russare, a quella distanza incolmabile? Non si può avere tutto, dico io…che tanto lei non russa….
Il resto della camera è proporzionato ai letti, e il resto dell’albergo è commisurato alla camera: dovrebbe essere un tre stelle, ma sembrano di più…sarà perché siamo qui, nel “campo delle stelle”, che le stelle abbondano….
Ci prendiamo una pausa di relax e poi ripartiamo per la città, armati di una cartina gentilmente fornitaci dalla receptionist, corredata di itinerario autografo a pennarello, a prova di idiota. Il programma è di visitare il centro storico, cenare in città e tornare a dormire presto, che domani si parte all’alba. Le signore insistono con l’idea di voler percorrere un pezzo di “cammino”, che immagino non possa essere un sentiero, in mezzo a una città del genere, quindi cercheremo di capire anche da dove arrivano i pellegrini….
Per il momento siamo immersi nel traffico di una qualsiasi città occidentale, che se per caso passa un viandante deve fare bene attenzione a non farsi stirare prima di raggiungere la meta…giriamo un po’ inutilmente a cercare parcheggio e poi, visto che siamo vicini alla zona “monumentale”, molliamo la macchina in una sosta a tempo, fra due ore torneremo (plurale inutile: tornerà Antonio…) ad aggiornare il disco orario.
Poche centinaia di metri più avanti lo scenario cambia completamente: superiamo l’anello esterno al centro pedonale ed entriamo in una città a misura, se non di pellegrino, almeno di turista. Il centro storico ha una omogeneità di architettura improntata sulle strette vie fiancheggiate da case in granito che riportano al clima medioevale in cui ci si immagina il cammino dei viandanti. Passeggiamo un po’ in direzione della cattedrale e le strade sono piene di turisti e comitive di pellegrini: i secondi si riconoscono da come camminano, dalle calzature messe a dura prova e da come ostentano con un certo orgoglio le loro conchiglie….
La spiritualità di Santiago è senz’altro diversa da quella di Fatima, che abbiamo sperimentato qualche giorno fa: non dico ne meglio ne peggio, ma certo diversa….Credo si possa parlare di una “religiosità laica”, in qualche modo contrapposta alla “religiosità miracolista” di Fatima, con tutte le distinzioni necessarie e senza attribuire a queste due categorie una valenza qualitativa. Il concetto stesso di pellegrinaggio protratto per centinaia di chilometri, il mettersi alla prova anche “fisicamente”, contrasta con quel breve camminare sui ginocchi che caratterizza Fatima, o con il dolore e la malattia che incontreremo poi a Lourdes, nei fisici provati dei malati accompagnati alle piscine. Qui si respira una forma di spiritualità che rimanda forse ai libri di Coelho (che non a caso ne ha scritto uno intitolato al “cammino”) con tutto il bene ed il male che se ne può dire: le categorie religiose si attagliano poco a questa esperienza. Tuttavia credo che, grattando sotto le incrostazioni turistiche-commerciali che inevitabilmente si impossessano di questi luoghi collettivi, sia possibile leggere nei volti di chi “arriva” un bisogno di “altro” e di “alto” che va guardato positivamente…..sempre che non si risolva poi nel portarsi a casa una conchiglia ….e buonanotte.
Oltre che di turisti e pellegrini (anzi: proprio per i turisti e i pellegrini…), le strade sono piene di “artisti”: in agosto a Santiago c’è il Festival dos Abrazos, e noi ci siamo capitati in mezzo. In molti angoli delle vie e piazze si esibiscono cantanti di strada, clown, teatranti, circondati da crocchi di gente….si respira un’aria di festa, dove gli abbracci (da cui il nome del festival…. immagino…), sono scambiati fra quanti si ritrovano infine alla meta, essendosi magari incontrati lungo il percorso nei giorni precedenti. Il luogo centrale di questo ritrovarsi è la piazza di fronte alla cattedrale, la “praca de Obradorio” al centro della quale una lapide ed una conchiglia incise sul selciato sono lo spazio conteso fra tutti i pellegrini per appoggiare finalmente il sedere e riposare i piedi…
Noi invece, indegni e immeritevoli automobilisti, ci sediamo un po’ in disparte ad osservare il via vai, e la facciata imponente della chiesa che domina la piazza, in attesa di entrare a salutare S.Giacomo e la sua stella. Se qualcuno volesse provare l’ebrezza di essere lì, vada a questo sito:
http://www.catedraldesantiago.es/visita/visitavirtualcatedralING.htm?pcated
potrà passeggiare virtualmente fra le navate deserte, cosa che a noi non è dato di fare, vista la ressa un po’ caotica che popola la chiesa. Su un lato del transetto un apposito ufficio sembra dedicato alla “vidimazione” ufficiale dei pellegrini, mentre un po’ di raccoglimento si ritrova solo nella lunga fila che si snoda intorno alla cripta per la visita alle reliquie del santo e la salita dietro l’altare per l’abbraccio rituale alla statua di S.Giacomo. Io e Antonio ci limitiamo a qualche foto senza intralciare i penitenti, e torniamo sulla piazza. Tina e Marina non hanno ancora rinunciato all’idea di percorrere un pezzo del “cammino”, quindi con l’aiuto della mappa ci dirigiamo verso la “porta do Camino” che dal nome dovrebbe essere l’ingresso alla città per i pellegrini. Lungo il percorso seguiamo, convinti di essere nel giusto, una serie di conchiglie in metallo affisse alle case, che in realtà sono dappertutto, simbolo della municipalità. La strada comunque è questa, come scopriremo alla fine, consultando la nostra guida sul “cammino francese” donataci a Padron. Dalla porta do Camino si ripiomba nel traffico automobilistico, anche se meno intenso di prima. Incrociamo una comitiva di scout italiani, in ordine sparso e dall’andatura frettolosa: forse avvertono l’approssimarsi della meta e non vedono l’ora….di sedersi. Chiediamo informazioni e ci confermano che il percorso è quello, indicandoci anche un cartello direzionale proprio all’angolo della Praca de San Pedro. Tina e Marina posano per la foto ricordo, ma non potrebbero ingannare nessuno…troppo sorridenti e riposate e troppo in abiti “urbani” per sembrare due pellegrine alla fine del cammino. Comunque decidono di proseguire ancora un po’ verso la Francia, incamminandosi lungo la strada di Os Concheiros. Gli antichi banchi dei venditori di conchiglie, che lungo questa via accoglievano un tempo i pellegrini, non ci sono più, sostituiti da più moderni negozi di souvenir: a me manca ancora la mia conchiglia, ma non mi va di comperarla così….
Perciò qui le nostre strade si dividono, le signore a calpestare le orme dei viandanti, Antonio a rinnovare il disco orario del parcheggio e io….a cercare un po’ di quiete in un parco che vedo indicato sulla carta. In fondo l’essenza dello spirito di Santiago è proprio in questo andare solitari verso la meta, paradigma esistenziale, ognuno con i propri mezzi e il proprio passo, quindi proviamo anche noi un briciolo di “spiritualità compostelliana”: ci diamo appuntamento per le otto in piazza, di fronte alla basilica. Mi dirigo verso il Parque de Belvis, lungo strade poco trafficate e, noto con piacere, assolutamente prive di auto in sosta: il servizio di rimozione deve funzionare bene. Il selciato in pietra, l’assenza di lamiere variopinte, le case in granito sui lati, tutto contribuisce a riportare indietro l’orologio del tempo. Entro un momento nella chiesa del convento de Belvis, ma c’è una funzione in corso, non voglio disturbare le monache domenicane che abitano il convento, quindi torno sul belvedere che domina la piccola valle nel cuore della città, che sembra trasformata a parco da non molti anni, viste le dimensioni delle piante. Sotto la terrazza i resti di quelle che sembrano una serie di celle conventuali degradanti lungo la rampa acciottolata, verso il ruscello che scorre in fondo: rimangono le pareti d’ingresso, con porticina e finestra, porticina e finestra, porticina e finestra….una corona di rosario in muratura a scandire il tempo, in un’epoca in cui il tempo aveva un’altra importanza. Scendo la Rua das Trompas per tornare verso il centro, costeggiando il Convento de la Ensenanza e mi rendo conto, guardando la mappa, di quanti conventi ci siano in questa città: eredità d’altri tempi, magari adesso sono tutti mezzi vuoti, o forse no, forse lo Spirito continua a soffiare forte da queste parti….
Mi dirigo verso un altro parco, dall’altra parte del centro storico, la Caballeira da Santa Susana. Lungo il Paseo de Alameda si ritrovano tutti quelli che non erano al Parque de Belvis: mezza città passeggia nel fresco del tramonto sotto gli alberi del parco, con l’aggiunta di un buon numero di turisti e pellegrini. Una coppia di chansonniers si esibisce, lei certamente francese, lui non si sa, limitandosi ad accompagnare alla chitarra: meriterebbero platea migliore per le qualità canore e musicali, e i pochi presenti lo capiscono e concedono applausi generosi, e qualche moneta d’incoraggiamento. Me ne vado, accompagnato dal vibrare perdurante di una erre francese, arrotata sopra un pentagramma di Brassens: peccato non potersi fermare ancora….ma sono quasi le otto e ho un appuntamento. Torno verso la Cattedrale, traversando una città vecchia ancora più animata (sarà l’approssimarsi dell’ora di cena che mette agitazione) ed entro nella piazza al rintocco delle campane: Antonio è già lì che aspetta, e le donne arrivano poco dopo. Il loro cammino si è interrotto dopo un paio di chilometri, fra aree amministrative e centri commerciali, ma sono comunque soddisfatte dell’impresa. Avessero proseguito ancora un po’ (un bel po’…), sarebbero salite sul Monte do Gozo, Monte del Gaudio dei pellegrini che arrivando da oriente vedevano (e vedono) per la prima volta le guglie della Cattedrale: chissà che non possa accadere in futuro….
Lungo il ritorno hanno esplorato i ristoranti della zona, con relativi menù, e ci guidano verso quello scelto, qui vicino, dietro la Cattedrale. Niente piatto del pellegrino, che non lo siamo, ma un più prosaico menù per turisti, proposto dal cameriere più sudato che abbia mai visto: eppure non fa nemmeno così caldo, chissà in piena estate….Le pareti in pietra viva del locale sono percorse da fessure e rientranze, dentro e sopra le quali i commensali hanno disposto piccole monete, una fontana di Trevi in verticale, probabilmente con lo stesso auspicio del “ritorno”. Antonio offre anche lui il suo contributo; certo qui il recupero è più agevole che a Roma, non ci si bagnano neppure i piedi….ma visti gli importi non ne vale la pena…e poi è già così sudato….niente attività supplementari. Io ordino una zuppa di pesce e dell’agnello, abbinamento improprio ma condizionato dal resto del menù, non particolarmente stimolante (per le nostre tasche….).
Alla fine della zuppa….Eureka! Ho trovato la conchiglia….nel fondo della tazza del brodo di pesce! Per la verità è Tina che coglie l’opportunità, facendomi notare la piccola Reginella che sto distrattamente maneggiando: conchiglia per conchiglia, questa è quella che passa il convento, non è una Cappasanta, ma è comunque di Santiago: me la infilo in tasca pensando che forse il ristoratore le ricicla nella zuppa a scopo decorativo; si starà ancora chiedendo chi è il morto di fame che si è mangiato anche i gusci…..
Usciamo nella luce del crepuscolo avanzato, passeggiando un po’ nelle vie intorno. Piazze e piazzette sono occupate da artisti di strada intenti alle loro esibizioni, attorniati da pubblico più o meno folto. Noi abbiamo un appuntamento sotto il portico di fronte alla Cattedrale, con un gruppo di musici che, secondo la guida, ogni sera allieta i pellegrini. Ci prepariamo per tempo, occupando gli unici posti a sedere: due gradini di marmo su un lato del porticato. I suonatori arrivano alla spicciolata, in costumi sgargianti, portando strumenti di varia fattura. Il repertorio non è esattamente consono alla spiritualità del luogo, riconosco “celito lindo” e qualche altra canzone della tradizione spagnola, sottolineata in coro dai turisti locali. Alla fine il “concerto offerto ai pellegrini” presentato dalla guida si trasforma nella raccolta di offerte per i musicanti, nella migliore tradizione delle esibizioni di piazza. D’altra parte…tutte le sere a suonare le stesse canzoni….se non fai su almeno due euro…. è dura. Lasciamo la piazza ad esibizione ancora in corso. Gli ultimi gruppi di irriducibili stazionano al centro, le chiappe appoggiate sulla sacra conchiglia, intenti a rimirare il cielo…avranno trovato quello che cercavano? Mi auguro di si per loro, che non gli rimanga solo il mal di piedi come ricordo….
Ormai è ora di tornare, domani si parte presto, quasi un migliaio di chilometri da fare. Incrociamo dietro la Cattedrale la francese e il suo chitarrista, intenti ad esibire il loro repertorio e Marina fa dello spirito sui condizionamenti estetici dei miei giudizi musicali: assolutamente falso…va beh…quasi falso: l’interazione dei sensi è inevitabile…e anche l’occhio vuole la sua parte…
Ci allontaniamo in automobile da questa città di viandanti verso l’anonima periferia, ragionando sulla possibilità e la voglia di tornare un giorno per imitarli. Per ora concludiamo la visita da turisti, lasciando a loro gli ostelli e sprofondandoci nella vastità dei nostri letti a tre piazze. Prima di addormentarmi do un’occhiata in televisione a un documentario sulle coste galiziane: splendide inquadrature di fari solitari battuti dai venti e dalle onde, scogliere tormentate dall’oceano, la “costa de la muerte” da La Coruna a Finisterre: chissà che conchiglie da quelle parti….mi ricordo che devo ancora lavare il mio ritrovamento nella zuppa di pesce, non vorrei conservasse l’odore in eterno. Penso a qualcosa che potrei scrivere per accompagnare il souvenir artigianale….una riflessione sul cammino della vita e i tesori inaspettati…..e mi addormento.

26 agosto: Porto, quattro a zonzo....

Questa mattina apriamo le finestre sulla….nebbia! Va be’ che siamo nella Milano del Portogallo, ma non ci aspettavamo questo clima. Per fortuna il fenomeno dura poco, il tempo che il sole salga un po’ nel cielo e ritorniamo in un giorno d’agosto portoghese, con tutta la giornata davanti e tutta la città da visitare. La sera precedente non sono stato molto diligente nella preparazione, sarà stata la stanchezza, sarà che mi sono dedicato allo studio di un opuscolo sulla produzione del vino di Porto, ma le guide sulla città sono rimaste nello zaino. Quindi adesso che si fa? Turisti fai da te? No Alpitur….? Esatto: ci aggiorniamo rapidamente dopo la colazione e poi via verso nuove incredibili avventure. Con la lingua in bocca si arriva dappertutto (se c’è chi capisce quello che dici…..). Come diceva la pubblicità, in fatto di trasporti abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, perché a Porto tutte le strade arrivano….. allo stadio, e noi siamo qui vicino. L’attaccamento dei portoghesi al calcio deve essere secondo solo a quello degli italiani. D’altra parte il foot-ball è di origine inglese, e qui gli inglesi hanno dettato le regole da sempre. I locali lo chiamano “futebol”, e qui dietro all’albergo, per gli europei del 2004, hanno costruito una cattedrale del pallone: il mitico Estadio do Dragao, i Draghi del Porto, unanimemente ritenuto uno dei più belli al mondo. Tutte le linee della metropolitana confluiscono qui, da ogni parte del perimetro urbano: fortuna che oggi non si gioca, tutto intorno è deserto. Circumnavighiamo lo stadio (davvero grande…) per accedere alla linea della metro, anche qui con l’ingresso gestito come a Lisbona da biglietti ricaricabili a radiofrequenza. Questa volta ci facciamo furbi: pochi euro per un biglietto a corsa multipla valido tutto il giorno; oggi scorrazzeremo avanti e indietro sui mezzi pubblici, che bisogna ammortizzare la spesa (anche se limitata). Ci facciamo furbi….ma non abbastanza per capire come funziona la macchinetta. Alla fine arriva un giovane assistente dal piglio didattico che ci spiega come funziona e poi aspetta che diligentemente rifacciamo quanto ci ha mostrato per dimostrargli che abbiamo capito…..peggio di uno svizzero! Comunque con i nostri biglietti ci avviamo all’entrata…che non esiste, nel senso che non ci sono barriere fisiche da superare, ma semplici sensori che rilevano il passaggio del biglietto: troppo avanti! Mi chiedo cosa succede se uno entra senza….ci sarà qualche cecchino svizzero appostato. Penso che il tutto sia studiato comunque a fini calcistici: con cinque linee di metropolitana che confluiscono qui da ogni angolo della città è impensabile di frapporre barriere fra la folla e il suo agognato svago, comunque le scavalcherebbero….
In pochi minuti raggiungiamo il “centro elegante” della città: gli Aliados, una via, piazza, passeggiata dove si affacciano locali e palazzi di inizio secolo. Oggi siamo un po’ svagati, si capisce che manca l’ansia del turista d’assalto, siamo piuttosto quattro bighelloni che gironzolano godendosi l’ultimo sole dell’estate: sarà per questo che di Porto mi resterà un così bel ricordo…..
Come prima cosa ci infiliamo in un caffè, attratti dall’aria di efficienza torrefatoria che emana: sarà il miglior caffè della vacanza, ma non mi ricordo il nome del locale, trovatelo da soli, basta seguire l’aroma…
In fondo al viale entriamo nella stazione monumentale di Sao Bento, con le pareti dell’atrio decorate da pannelli di azuleios che pensavo fossero meno in uso in questo nord produttivo. Invece anche qui non hanno resistito alla tentazione di rimarcare al passeggero in arrivo le grandezze del paese che lo accoglie, descritte con perizia sulle pareti istoriate. Spicca, fra i tanti episodi di gloria qui descritti, la conquista di Ceuta da parte di quell’Infante dom Enrique, già lasciato sulla prua a Lisbona con la sua caravella in mano, che giusto quell’impresa può vantare, essendo peraltro pure nativo di questo luogo. Di quella storica spedizione militare rimane alla città un altro ricordo: il soprannome di “tripeiros” affibbiato ai suoi abitanti, costretti (la leggenda dice “spontanei offerenti”, ma non ci credo….) a consegnare la carne ai soldati in partenza, tenendo per sè solo le interiora, da cui il nome…e il piatto tipico locale, la trippa. Se avessero decorato la parete con un enorme azuleios rappresentante un piatto di trippa fumante non sarebbe forse stato più accogliente, per gli stanchi passeggeri in arrivo? Invece di quest’orda guerresca intenta a scannare le trippe altrui? Mah, vai a capire la gente….forse all’autore non piaceva la trippa….è un piatto un po’ particolare.
Fuori dalla stazione la prospettiva si allarga sul colle della cattedrale, verso la quale ci dirigiamo per una rapida visita. Fra le sue mura gotico-romaniche si sono sposati Giovanni I e Filippa di Lancaster, i due che giacciono a Batalha, fondatori della prima stirpe regnante portoghese e della lunga amicizia anglo-lusitana. Il mondo è piccolo…
Usciamo dalla cattedrale, indecisi se scendere al fiume o tornare sui nostri passi per una capatina all’altro monumento citato dalle guide, la torre dei Clerigos: nel dubbio decidiamo di proseguire sopra il Ponte de Don Luis I, per buttare uno sguardo d’insieme alla città. La vista spazia lungo il corso del Douro, scavalcato dai ponti moderni o meno recenti, fino all’ansa dell’Arrabida, prima della foce; sotto di noi la Ribeira, il vecchio quartiere portuale. Il fascino delle città di fiume sta anche nelle separazioni che questi vi creano traversandole. In questo caso la separazione è durata nei secoli e si è mantenuta fino ai nostri giorni: oltrepassato il ponte i nostri piedi calcano il suolo di Vila nova da Gaia, altra municipalità. Qui siamo nell’antica “Cale” romana, di cui il borgo di là dal ponte altro non era che il “portus”, da cui il nome di “portus-Cale” che in breve la designò, passando poi all’intera nazione. Per secoli il Douro separò questo lato, ancora sotto il dominio arabo, dal lato nord, “mai vinto” come amano ricordare i portuensi. Dall’altra riva prese avvio la “riconquista” dei territori del sud, e chissà se anche qui c’è qualcuno che stramaledice il Garibaldi locale per la sua idea di attraversare il fiume….In effetti l’ansia dell’unificazione non dev’essere stata poi così forte, se ci vollero secoli, fino a metà ottocento, per unire le due rive con qualcosa di più solido di una barca, costruendo il ponte su cui stiamo camminando. Ora su questo emblema dell’unità nazionale passa la metropolitana, lentamente perché la struttura sembra solida, ma è pur sempre datata….Ne approfittiamo anche noi per ritornare indietro di un paio di fermate fino agli Aliados, inaugurando lo sfruttamento intensivo dei nostri biglietti giornalieri.
Dalla stazione della metro risaliamo la Rua Clerigos fino all’omonima chiesa e torre, famosa soprattutto per il panorama che si gode dalla sua sommità, al quale comunque rinunciamo senza troppi rimpianti. Ci fermiamo ad aspettare che il mezzogiorno dia il la al concerto di campane, seconda cosa, dopo il paesaggio, per cui è famosa la torre: il concerto inizia, ma il suono è sovrastato dai motori di un paio di camion che vanno avanti e indietro sulla piazza, per carico e scarico merci. Siamo gli unici con il naso all’insù, a rischiare l’investimento, probabilmente gli abitanti sono assuefatti allo scampanio misto traffico e lo scambierebbero volentieri con un po’ di silenzio….solito destino delle cose belle, cadere nell’oblio dell’abitudine….
Sempre seguendo la guida ci incamminiamo alla ricerca della Iglesia do Carmo, qui vicino, vagando un po’ per imperizia gestionale della mappa, per arrivare finalmente sotto il suo famoso fianco rivestito da azuleios: scattiamo le foto ricordo, ma non è che queste decorazioni stile interno bagno ci entusiasmino particolarmente….Qui è rappresentata l’origine dell’ordine dei Carmelitani, ed il monte Carmelo, tutto su piastrelle azzurre (azuleios, appunto…), in ottimo stato, essendo dell’inizio del secolo scorso.
Torniamo sui nostri passi e decidiamo che è ora di scendere al fiume, scegliendo per farlo la funicolare che parte dietro la stazione: un ripido tragitto (troppo ripido per Tina…) a picco sulla Ribeira, dove approdiamo in pochi minuti, proprio sotto l’imboccatura del piano inferiore del ponte de Louis I. Dal concerto di mezzogiorno delle campane dei Clerigos è passato abbastanza da stimolare un certo appetito, per cui ci fermiamo su una panchina in riva al fiume a consumare il solito frugale pasto a base di panini e avanzi di buffet. Sul fiume galleggiano (da secoli?) le imbarcazioni da trasporto per le botti del vino di porto, provenienti dall’entroterra lontano, anche cento chilometri a monte. Sono lì solo per le foto dei turisti, quindi faccio anch’io il mio dovere, nel caso si offendessero per la trascuratezza….Oggi il vino discende il corso del Douro a bordo dei Tir, meno poetico ma più efficiente, svincolando dal fiume i luoghi di produzione lontani, per secoli uniti da questo corso d’acqua alle cantine di invecchiamento, qui sulla riva opposta. L’uso dei camion consentirà magari anche qualche divagazione in terre più lontane, fuori dall’area di produzione consentita, a raccogliere uva meno nobile, ma altrettanto idonea a trasformarsi in commerciabile prodotto enologico….In questo anche i bresciani di franciacorta avrebbero da insegnare…
Sulla riva di fronte, a Vila Nova da Gaia, campeggiano le insegne delle case produttrici del Porto, molte di chiara origine britannica: Osborne, Croft, Offley, Taylor….nel pomeriggio faremo un giro, giusto per cercare di scroccare un bicchierino. Per ora riprendiamo il nostro passeggio per la Ribeira, camminando per vicoli e scalette lungo il fiume, fino alla piazza omonima. Qui, fuori da un locale, una vecchia cucina “sardinhas asadas” all’aperto, affumicando la facciata di quella che sembra una chiesa in disuso: non ci sono inquilini a lamentarsi, mentre i turisti sembrano gradire il risultato. Risaliamo verso il Palacio da Bolsa e la Iglesia de S.Francisco: il primo è famoso per le decorazioni in oro della sua sala araba, la seconda per i rivestimenti in oro delle sue navate. Strano caso del destino che siano collocati così vicini, il tempio sacro e quello profano; e lascio a voi decidere, nella mutata religiosità contemporanea, a quale si addica ciascuno degli aggettivi….certo l’oro abbonda in tutti e due, chiaro indice di una certa confusione…Noi comunque non visitiamo ne l’uno ne l’altro: il palazzo della borsa è a pagamento, e figuriamoci se spendiamo 5 euro per una istituzione che già ce ne ha fregati a migliaia, mentre la chiesa di S.Francesco con i suoi 600 kilogrammi d’oro (il poverello d’Assisi ne sarà felicissimo….) spalmati sulle pareti, la circumnavighiamo inutilmente per scoprire poi che l’ingresso è sull’altro lato: troppo stanchi per tornare sui nostri passi…..la vedremo la prossima volta.
Decidiamo di sfruttare i biglietti e dirigerci alla foce del Douro, per un ultimo sguardo all’oceano portoghese prima della partenza. Costeggiamo il fiume su un autobus di linea per qualche chilometro e scendiamo ai giardini “do passeio alegre”, nome non molto appropriato, visto che sono invasi da lavori in corso, che bloccano anche l’accesso al molo che delimita il fiume nel suo sbocco all’oceano.
Ci sediamo sul muro che sovrasta la spiaggia di fronte al castello di Sao Joao da foz, deserta nel sole del pomeriggio, forse per colpa di un mare non proprio tranquillo e di un’arietta frizzantina che non invoglia al bikini…o forse perché ci saranno spiagge più invitanti di questa “praja de ourigo” nei dintorni, preferite dai portuensi. Ci resta ancora qualche ora prima del tramonto, che decidiamo di dedicare al Centro di Fotografia e all’assaggio enologico, come aperitivo. Con il bus torniamo agli Aliados e risaliamo, guida alla mano, la collina cercando la Cadeia da Relacao, dove ha sede il museo, scoprendo che è giusto attaccata alla torre dei Clerigos, affacciata sulla piazza dove eravamo poche ore fa: oggi siamo proprio dei perdigiorno disorganizzati….
La principale attrattiva del Centro di fotografia, oltre all’ingresso gratuito, è l’edificio dov’è ospitato, le antiche carceri della città (antiche come costruzione, ma funzionanti fino alla rivoluzione dei garofani, nel 1974). Nelle grandi celle che segregavano i gruppi di reclusi, separati per genere ed età, sono ora esposte opere fotografiche internazionali; alcune raccontano di altre disperazioni, appese alle grate di ferro arrugginito, a ricordare che per ogni carcere svuotato se ne apre sempre un altro da qualche altra parte. Camminando per questi corridoi di pietra mi tornano in mente gli auspici di tanti che ancora li riterrebbero pienamente funzionali allo scopo, che “istituti di pena devono essere, altro che alberghi…”. Nemmeno la fede scalfisce il comune pensare: credo che fra le sette opere di misericordia corporale quella di “visitare i carcerati” sia la più disattesa…
Su questi argomenti capita anche ai più “politicamente corretti” d’intrattenersi in riflessioni che non si condividono, ma bisogna fare i conti con il lato oscuro della tribalità sociale, cercando di far prevalere la razionalità pragmatica: dalla sofferenza patita e dalla privazione possono nascere solo desiderio di rivalsa e nuovi bisogni da saziare, con buona pace della rieducazione alla socialità…Per non parlare dell’uso politico che in ogni tempo si è fatto di questi luoghi, come ricordano le targhe appese in varie celle, elencanti i prigionieri reclusi durante la dittatura di Salazar. Non fosse altro che per questo, varrebbe la pena di auspicare carceri dignitose, non si sa mai ci tocchi un domani risiedervi, magari per la sola colpa delle nostre idee….Ma, come insegna la storia, molti risolvono il problema alla base, rinunciando all’esercizio delle proprie idee e sposando quelle di chi, di volta in volta, delle carceri maneggia il mazzo di chiavi….
Mentre mi perdo in queste riflessioni, perdo anche la strada fra scale e corridoi, e perdo le due donzelle: meglio tornare all’uscita ad attenderle, dato che, come per tutte le carceri, da una sola porta si entra ed esce….
Nel sole della piazza aspettiamo l’autobus per scendere alla stazione Sao Bento e riattraversare il ponte verso Vila Nova da Gaia, questa volta in metropolitana. La mappa prelevata in albergo riporta la collocazione di tutte le principali sedi delle Cantine del Porto, le “caves”: scegliamo quella della ditta Taylor, perché la guida dice che l’assaggio è gratuito….
Piccolo suggerimento cartografico: diffidare delle planimetrie quando rappresentano superfici in realtà niente affatto piane…un paio di isolati sulla mappa si traducono in su e giù per niente rilassanti. Si aggiunga che la cartina è un po’ imprecisa (o hanno spostato la sede…) e alla fine arriviamo alla Taylor alquanto sudati, più bisognosi di un Gatorade che di un bicchiere di porto…
Comunque ci sediamo ai tavolini in attesa che inizi la visita (quella in inglese perché “we speak english very well”, abbiamo assicurato alla signorina organizzatrice…che tanto in italiano non la fanno…). Studiamo dubbiosi e preoccupati il menù che riporta prezzi stratosferici per vini di cui non abbiamo la minima conoscenza, e quando abbiamo quasi deciso di alzarci senza consumare ci portano due calici di porto: bianco, in totale contrasto con le aspettative, e gli assaggi già anticipati nei giorni precedenti…non è nemmeno un granchè, però è gratis.
Ci vorrebbe qualcosa da mangiare per assorbire i fumi dell’alcol che risalgono pericolosamente alla testa, ma non c’è tempo perché la visita inizia. L’accompagnatrice fissa sovente lo sguardo su di me (capitato in prima fila) mentre spiega i segreti della produzione di questo famoso vino: credo sia perfettamente cosciente che non capisco niente di quello che dice, però fingo, annuendo di tanto in tanto e cercando di tradurre a Marina quello che credo di intuire. Dietro di noi qualcuno invita al silenzio: sono italiani, capiscono una mazza neanche loro, ma così si danno un tono: ma andate un po’ a….
Alla fine, dopo un rapido attraversamento del percorso obbligato fra tini e botti di invecchiamento, torniamo all’aperto e cerchiamo di condividere quanto compreso: ne esce un quadro un po’ confuso e contrastante, per cui chi volesse chiarirsi i dubbi può trovare le informazioni “ufficiali” qui:
http://www.ivp.pt/index.asp
Prima di andarsene è d’obbligo un passaggio alla “boutique” della cantina: Antonio compra una bottiglia, solo per avere quella ufficiale di ricordo, perché bisogna portarsi a spalle gli acquisti fino in albergo, e siamo un po’ provati dalla giornata. Torniamo sui nostri passi, giusto perché è in discesa, verso il Cais de Gaia, contando di prendere un autobus per la nostra “collegatissima” periferia. Lungo la strada, sul lungofiume, i buttadentro delle “caves” ci invitano ad altri assaggi: no grazie, abbiamo già dato…alla fine arriva l’autobus e ci facciamo “oporto by bus” ( e metro...) fino all’albergo, per una pausa di relax prima della cena. Quando riemergiamo dal torpore delle nostre camere comincia ad imbrunire; con esperienza da pendolari portoghesi riprendiamo i mezzi pubblici fino in centro, scendendo in prossimità della Iglesia de Santa Caterina, un trionfo di azuleios che rivestono ogni centimetro quadrato della superficie esterna, fino al tetto: il sogno del piastrellista, o l’incubo…a seconda dei punti di vista. Scattiamo qualche foto nella scarsa luce della sera e poi partiamo in cerca di un ristorante. La lonely planet suggerisce alcuni locali, rigorosamente in categoria economica, fra i quali scegliamo uno proprio dietro gli Aliados: è abbastanza affollato, forse è un buon segno…sperando non sia solo per i soldi. Escludo a priori la trippa ( Marina non potrebbe sopportarlo) , però dal menù non capisco una mazza, quindi ricorro ad un sistema infallibile: guardo nel piatto degli altri, notando una certa prevalenza di cosce di pollo fritte, con contorno. Mal comune mezzo gaudio, se le mangiano in tanti non faranno schifo…ipotesi pericolosa e dipendente dal luogo: in africa potrebbe significare mangiare cavallette …, ma qui siamo “una razza una faccia”, e il pollo fritto non è male. Tina e Antonio complicano un po’ l’esistenza alla cameriera, proponendo varianti impreviste dal menù, ma alla fine vengono accontentati, o si accontentano. Mi concedo anche un bicchierino di porto, di quello rosso e “buono”, garantisce la ragazza ai tavoli. Uscendo dal locale transitiamo davanti al banco dei dolci da asporto, un cameriere sta riordinando per la chiusura. Da dietro il vetro due solitari Pasteis de Belem ci fissano malinconici: sembra aspettino solo noi. Io e Marina li mangiamo per strada, in quest’ultima notte portoghese; contribuiranno forse a radicare nella memoria il ricordo di una terra dolce e semplice, come i suoi pasticcini.
Scendiamo a piedi fino alla Ribeira, per un ultimo sguardo alla città che si specchia nelle nere acque del Douro. Praca Ribeira è ancora animata da turisti, nonostante la guida suggerisca di evitare il luogo di notte; d’altra parte dirà la stessa cosa più o meno di tutti i centri storici europei…. Comunque tralasciamo di inoltrarci nei vicoli del quartiere vecchio, orbitando intorno alla piazza finchè decidiamo di salutare Porto e il suo fiume per tornare con l’autobus in albergo.
Nella notte l’orientamento risulta più difficile, ma un passeggero nota il mio sguardo perplesso mentre consulto la carta guardando dal finestrino, e si offre di darci una mano, chiedendoci dove stiamo di albergo: proprio alla fine questo popolo un po’ scontroso si riscatta, non vorrà lasciarci un brutto ricordo….