26 agosto: Porto, quattro a zonzo....

Questa mattina apriamo le finestre sulla….nebbia! Va be’ che siamo nella Milano del Portogallo, ma non ci aspettavamo questo clima. Per fortuna il fenomeno dura poco, il tempo che il sole salga un po’ nel cielo e ritorniamo in un giorno d’agosto portoghese, con tutta la giornata davanti e tutta la città da visitare. La sera precedente non sono stato molto diligente nella preparazione, sarà stata la stanchezza, sarà che mi sono dedicato allo studio di un opuscolo sulla produzione del vino di Porto, ma le guide sulla città sono rimaste nello zaino. Quindi adesso che si fa? Turisti fai da te? No Alpitur….? Esatto: ci aggiorniamo rapidamente dopo la colazione e poi via verso nuove incredibili avventure. Con la lingua in bocca si arriva dappertutto (se c’è chi capisce quello che dici…..). Come diceva la pubblicità, in fatto di trasporti abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, perché a Porto tutte le strade arrivano….. allo stadio, e noi siamo qui vicino. L’attaccamento dei portoghesi al calcio deve essere secondo solo a quello degli italiani. D’altra parte il foot-ball è di origine inglese, e qui gli inglesi hanno dettato le regole da sempre. I locali lo chiamano “futebol”, e qui dietro all’albergo, per gli europei del 2004, hanno costruito una cattedrale del pallone: il mitico Estadio do Dragao, i Draghi del Porto, unanimemente ritenuto uno dei più belli al mondo. Tutte le linee della metropolitana confluiscono qui, da ogni parte del perimetro urbano: fortuna che oggi non si gioca, tutto intorno è deserto. Circumnavighiamo lo stadio (davvero grande…) per accedere alla linea della metro, anche qui con l’ingresso gestito come a Lisbona da biglietti ricaricabili a radiofrequenza. Questa volta ci facciamo furbi: pochi euro per un biglietto a corsa multipla valido tutto il giorno; oggi scorrazzeremo avanti e indietro sui mezzi pubblici, che bisogna ammortizzare la spesa (anche se limitata). Ci facciamo furbi….ma non abbastanza per capire come funziona la macchinetta. Alla fine arriva un giovane assistente dal piglio didattico che ci spiega come funziona e poi aspetta che diligentemente rifacciamo quanto ci ha mostrato per dimostrargli che abbiamo capito…..peggio di uno svizzero! Comunque con i nostri biglietti ci avviamo all’entrata…che non esiste, nel senso che non ci sono barriere fisiche da superare, ma semplici sensori che rilevano il passaggio del biglietto: troppo avanti! Mi chiedo cosa succede se uno entra senza….ci sarà qualche cecchino svizzero appostato. Penso che il tutto sia studiato comunque a fini calcistici: con cinque linee di metropolitana che confluiscono qui da ogni angolo della città è impensabile di frapporre barriere fra la folla e il suo agognato svago, comunque le scavalcherebbero….
In pochi minuti raggiungiamo il “centro elegante” della città: gli Aliados, una via, piazza, passeggiata dove si affacciano locali e palazzi di inizio secolo. Oggi siamo un po’ svagati, si capisce che manca l’ansia del turista d’assalto, siamo piuttosto quattro bighelloni che gironzolano godendosi l’ultimo sole dell’estate: sarà per questo che di Porto mi resterà un così bel ricordo…..
Come prima cosa ci infiliamo in un caffè, attratti dall’aria di efficienza torrefatoria che emana: sarà il miglior caffè della vacanza, ma non mi ricordo il nome del locale, trovatelo da soli, basta seguire l’aroma…
In fondo al viale entriamo nella stazione monumentale di Sao Bento, con le pareti dell’atrio decorate da pannelli di azuleios che pensavo fossero meno in uso in questo nord produttivo. Invece anche qui non hanno resistito alla tentazione di rimarcare al passeggero in arrivo le grandezze del paese che lo accoglie, descritte con perizia sulle pareti istoriate. Spicca, fra i tanti episodi di gloria qui descritti, la conquista di Ceuta da parte di quell’Infante dom Enrique, già lasciato sulla prua a Lisbona con la sua caravella in mano, che giusto quell’impresa può vantare, essendo peraltro pure nativo di questo luogo. Di quella storica spedizione militare rimane alla città un altro ricordo: il soprannome di “tripeiros” affibbiato ai suoi abitanti, costretti (la leggenda dice “spontanei offerenti”, ma non ci credo….) a consegnare la carne ai soldati in partenza, tenendo per sè solo le interiora, da cui il nome…e il piatto tipico locale, la trippa. Se avessero decorato la parete con un enorme azuleios rappresentante un piatto di trippa fumante non sarebbe forse stato più accogliente, per gli stanchi passeggeri in arrivo? Invece di quest’orda guerresca intenta a scannare le trippe altrui? Mah, vai a capire la gente….forse all’autore non piaceva la trippa….è un piatto un po’ particolare.
Fuori dalla stazione la prospettiva si allarga sul colle della cattedrale, verso la quale ci dirigiamo per una rapida visita. Fra le sue mura gotico-romaniche si sono sposati Giovanni I e Filippa di Lancaster, i due che giacciono a Batalha, fondatori della prima stirpe regnante portoghese e della lunga amicizia anglo-lusitana. Il mondo è piccolo…
Usciamo dalla cattedrale, indecisi se scendere al fiume o tornare sui nostri passi per una capatina all’altro monumento citato dalle guide, la torre dei Clerigos: nel dubbio decidiamo di proseguire sopra il Ponte de Don Luis I, per buttare uno sguardo d’insieme alla città. La vista spazia lungo il corso del Douro, scavalcato dai ponti moderni o meno recenti, fino all’ansa dell’Arrabida, prima della foce; sotto di noi la Ribeira, il vecchio quartiere portuale. Il fascino delle città di fiume sta anche nelle separazioni che questi vi creano traversandole. In questo caso la separazione è durata nei secoli e si è mantenuta fino ai nostri giorni: oltrepassato il ponte i nostri piedi calcano il suolo di Vila nova da Gaia, altra municipalità. Qui siamo nell’antica “Cale” romana, di cui il borgo di là dal ponte altro non era che il “portus”, da cui il nome di “portus-Cale” che in breve la designò, passando poi all’intera nazione. Per secoli il Douro separò questo lato, ancora sotto il dominio arabo, dal lato nord, “mai vinto” come amano ricordare i portuensi. Dall’altra riva prese avvio la “riconquista” dei territori del sud, e chissà se anche qui c’è qualcuno che stramaledice il Garibaldi locale per la sua idea di attraversare il fiume….In effetti l’ansia dell’unificazione non dev’essere stata poi così forte, se ci vollero secoli, fino a metà ottocento, per unire le due rive con qualcosa di più solido di una barca, costruendo il ponte su cui stiamo camminando. Ora su questo emblema dell’unità nazionale passa la metropolitana, lentamente perché la struttura sembra solida, ma è pur sempre datata….Ne approfittiamo anche noi per ritornare indietro di un paio di fermate fino agli Aliados, inaugurando lo sfruttamento intensivo dei nostri biglietti giornalieri.
Dalla stazione della metro risaliamo la Rua Clerigos fino all’omonima chiesa e torre, famosa soprattutto per il panorama che si gode dalla sua sommità, al quale comunque rinunciamo senza troppi rimpianti. Ci fermiamo ad aspettare che il mezzogiorno dia il la al concerto di campane, seconda cosa, dopo il paesaggio, per cui è famosa la torre: il concerto inizia, ma il suono è sovrastato dai motori di un paio di camion che vanno avanti e indietro sulla piazza, per carico e scarico merci. Siamo gli unici con il naso all’insù, a rischiare l’investimento, probabilmente gli abitanti sono assuefatti allo scampanio misto traffico e lo scambierebbero volentieri con un po’ di silenzio….solito destino delle cose belle, cadere nell’oblio dell’abitudine….
Sempre seguendo la guida ci incamminiamo alla ricerca della Iglesia do Carmo, qui vicino, vagando un po’ per imperizia gestionale della mappa, per arrivare finalmente sotto il suo famoso fianco rivestito da azuleios: scattiamo le foto ricordo, ma non è che queste decorazioni stile interno bagno ci entusiasmino particolarmente….Qui è rappresentata l’origine dell’ordine dei Carmelitani, ed il monte Carmelo, tutto su piastrelle azzurre (azuleios, appunto…), in ottimo stato, essendo dell’inizio del secolo scorso.
Torniamo sui nostri passi e decidiamo che è ora di scendere al fiume, scegliendo per farlo la funicolare che parte dietro la stazione: un ripido tragitto (troppo ripido per Tina…) a picco sulla Ribeira, dove approdiamo in pochi minuti, proprio sotto l’imboccatura del piano inferiore del ponte de Louis I. Dal concerto di mezzogiorno delle campane dei Clerigos è passato abbastanza da stimolare un certo appetito, per cui ci fermiamo su una panchina in riva al fiume a consumare il solito frugale pasto a base di panini e avanzi di buffet. Sul fiume galleggiano (da secoli?) le imbarcazioni da trasporto per le botti del vino di porto, provenienti dall’entroterra lontano, anche cento chilometri a monte. Sono lì solo per le foto dei turisti, quindi faccio anch’io il mio dovere, nel caso si offendessero per la trascuratezza….Oggi il vino discende il corso del Douro a bordo dei Tir, meno poetico ma più efficiente, svincolando dal fiume i luoghi di produzione lontani, per secoli uniti da questo corso d’acqua alle cantine di invecchiamento, qui sulla riva opposta. L’uso dei camion consentirà magari anche qualche divagazione in terre più lontane, fuori dall’area di produzione consentita, a raccogliere uva meno nobile, ma altrettanto idonea a trasformarsi in commerciabile prodotto enologico….In questo anche i bresciani di franciacorta avrebbero da insegnare…
Sulla riva di fronte, a Vila Nova da Gaia, campeggiano le insegne delle case produttrici del Porto, molte di chiara origine britannica: Osborne, Croft, Offley, Taylor….nel pomeriggio faremo un giro, giusto per cercare di scroccare un bicchierino. Per ora riprendiamo il nostro passeggio per la Ribeira, camminando per vicoli e scalette lungo il fiume, fino alla piazza omonima. Qui, fuori da un locale, una vecchia cucina “sardinhas asadas” all’aperto, affumicando la facciata di quella che sembra una chiesa in disuso: non ci sono inquilini a lamentarsi, mentre i turisti sembrano gradire il risultato. Risaliamo verso il Palacio da Bolsa e la Iglesia de S.Francisco: il primo è famoso per le decorazioni in oro della sua sala araba, la seconda per i rivestimenti in oro delle sue navate. Strano caso del destino che siano collocati così vicini, il tempio sacro e quello profano; e lascio a voi decidere, nella mutata religiosità contemporanea, a quale si addica ciascuno degli aggettivi….certo l’oro abbonda in tutti e due, chiaro indice di una certa confusione…Noi comunque non visitiamo ne l’uno ne l’altro: il palazzo della borsa è a pagamento, e figuriamoci se spendiamo 5 euro per una istituzione che già ce ne ha fregati a migliaia, mentre la chiesa di S.Francesco con i suoi 600 kilogrammi d’oro (il poverello d’Assisi ne sarà felicissimo….) spalmati sulle pareti, la circumnavighiamo inutilmente per scoprire poi che l’ingresso è sull’altro lato: troppo stanchi per tornare sui nostri passi…..la vedremo la prossima volta.
Decidiamo di sfruttare i biglietti e dirigerci alla foce del Douro, per un ultimo sguardo all’oceano portoghese prima della partenza. Costeggiamo il fiume su un autobus di linea per qualche chilometro e scendiamo ai giardini “do passeio alegre”, nome non molto appropriato, visto che sono invasi da lavori in corso, che bloccano anche l’accesso al molo che delimita il fiume nel suo sbocco all’oceano.
Ci sediamo sul muro che sovrasta la spiaggia di fronte al castello di Sao Joao da foz, deserta nel sole del pomeriggio, forse per colpa di un mare non proprio tranquillo e di un’arietta frizzantina che non invoglia al bikini…o forse perché ci saranno spiagge più invitanti di questa “praja de ourigo” nei dintorni, preferite dai portuensi. Ci resta ancora qualche ora prima del tramonto, che decidiamo di dedicare al Centro di Fotografia e all’assaggio enologico, come aperitivo. Con il bus torniamo agli Aliados e risaliamo, guida alla mano, la collina cercando la Cadeia da Relacao, dove ha sede il museo, scoprendo che è giusto attaccata alla torre dei Clerigos, affacciata sulla piazza dove eravamo poche ore fa: oggi siamo proprio dei perdigiorno disorganizzati….
La principale attrattiva del Centro di fotografia, oltre all’ingresso gratuito, è l’edificio dov’è ospitato, le antiche carceri della città (antiche come costruzione, ma funzionanti fino alla rivoluzione dei garofani, nel 1974). Nelle grandi celle che segregavano i gruppi di reclusi, separati per genere ed età, sono ora esposte opere fotografiche internazionali; alcune raccontano di altre disperazioni, appese alle grate di ferro arrugginito, a ricordare che per ogni carcere svuotato se ne apre sempre un altro da qualche altra parte. Camminando per questi corridoi di pietra mi tornano in mente gli auspici di tanti che ancora li riterrebbero pienamente funzionali allo scopo, che “istituti di pena devono essere, altro che alberghi…”. Nemmeno la fede scalfisce il comune pensare: credo che fra le sette opere di misericordia corporale quella di “visitare i carcerati” sia la più disattesa…
Su questi argomenti capita anche ai più “politicamente corretti” d’intrattenersi in riflessioni che non si condividono, ma bisogna fare i conti con il lato oscuro della tribalità sociale, cercando di far prevalere la razionalità pragmatica: dalla sofferenza patita e dalla privazione possono nascere solo desiderio di rivalsa e nuovi bisogni da saziare, con buona pace della rieducazione alla socialità…Per non parlare dell’uso politico che in ogni tempo si è fatto di questi luoghi, come ricordano le targhe appese in varie celle, elencanti i prigionieri reclusi durante la dittatura di Salazar. Non fosse altro che per questo, varrebbe la pena di auspicare carceri dignitose, non si sa mai ci tocchi un domani risiedervi, magari per la sola colpa delle nostre idee….Ma, come insegna la storia, molti risolvono il problema alla base, rinunciando all’esercizio delle proprie idee e sposando quelle di chi, di volta in volta, delle carceri maneggia il mazzo di chiavi….
Mentre mi perdo in queste riflessioni, perdo anche la strada fra scale e corridoi, e perdo le due donzelle: meglio tornare all’uscita ad attenderle, dato che, come per tutte le carceri, da una sola porta si entra ed esce….
Nel sole della piazza aspettiamo l’autobus per scendere alla stazione Sao Bento e riattraversare il ponte verso Vila Nova da Gaia, questa volta in metropolitana. La mappa prelevata in albergo riporta la collocazione di tutte le principali sedi delle Cantine del Porto, le “caves”: scegliamo quella della ditta Taylor, perché la guida dice che l’assaggio è gratuito….
Piccolo suggerimento cartografico: diffidare delle planimetrie quando rappresentano superfici in realtà niente affatto piane…un paio di isolati sulla mappa si traducono in su e giù per niente rilassanti. Si aggiunga che la cartina è un po’ imprecisa (o hanno spostato la sede…) e alla fine arriviamo alla Taylor alquanto sudati, più bisognosi di un Gatorade che di un bicchiere di porto…
Comunque ci sediamo ai tavolini in attesa che inizi la visita (quella in inglese perché “we speak english very well”, abbiamo assicurato alla signorina organizzatrice…che tanto in italiano non la fanno…). Studiamo dubbiosi e preoccupati il menù che riporta prezzi stratosferici per vini di cui non abbiamo la minima conoscenza, e quando abbiamo quasi deciso di alzarci senza consumare ci portano due calici di porto: bianco, in totale contrasto con le aspettative, e gli assaggi già anticipati nei giorni precedenti…non è nemmeno un granchè, però è gratis.
Ci vorrebbe qualcosa da mangiare per assorbire i fumi dell’alcol che risalgono pericolosamente alla testa, ma non c’è tempo perché la visita inizia. L’accompagnatrice fissa sovente lo sguardo su di me (capitato in prima fila) mentre spiega i segreti della produzione di questo famoso vino: credo sia perfettamente cosciente che non capisco niente di quello che dice, però fingo, annuendo di tanto in tanto e cercando di tradurre a Marina quello che credo di intuire. Dietro di noi qualcuno invita al silenzio: sono italiani, capiscono una mazza neanche loro, ma così si danno un tono: ma andate un po’ a….
Alla fine, dopo un rapido attraversamento del percorso obbligato fra tini e botti di invecchiamento, torniamo all’aperto e cerchiamo di condividere quanto compreso: ne esce un quadro un po’ confuso e contrastante, per cui chi volesse chiarirsi i dubbi può trovare le informazioni “ufficiali” qui:
http://www.ivp.pt/index.asp
Prima di andarsene è d’obbligo un passaggio alla “boutique” della cantina: Antonio compra una bottiglia, solo per avere quella ufficiale di ricordo, perché bisogna portarsi a spalle gli acquisti fino in albergo, e siamo un po’ provati dalla giornata. Torniamo sui nostri passi, giusto perché è in discesa, verso il Cais de Gaia, contando di prendere un autobus per la nostra “collegatissima” periferia. Lungo la strada, sul lungofiume, i buttadentro delle “caves” ci invitano ad altri assaggi: no grazie, abbiamo già dato…alla fine arriva l’autobus e ci facciamo “oporto by bus” ( e metro...) fino all’albergo, per una pausa di relax prima della cena. Quando riemergiamo dal torpore delle nostre camere comincia ad imbrunire; con esperienza da pendolari portoghesi riprendiamo i mezzi pubblici fino in centro, scendendo in prossimità della Iglesia de Santa Caterina, un trionfo di azuleios che rivestono ogni centimetro quadrato della superficie esterna, fino al tetto: il sogno del piastrellista, o l’incubo…a seconda dei punti di vista. Scattiamo qualche foto nella scarsa luce della sera e poi partiamo in cerca di un ristorante. La lonely planet suggerisce alcuni locali, rigorosamente in categoria economica, fra i quali scegliamo uno proprio dietro gli Aliados: è abbastanza affollato, forse è un buon segno…sperando non sia solo per i soldi. Escludo a priori la trippa ( Marina non potrebbe sopportarlo) , però dal menù non capisco una mazza, quindi ricorro ad un sistema infallibile: guardo nel piatto degli altri, notando una certa prevalenza di cosce di pollo fritte, con contorno. Mal comune mezzo gaudio, se le mangiano in tanti non faranno schifo…ipotesi pericolosa e dipendente dal luogo: in africa potrebbe significare mangiare cavallette …, ma qui siamo “una razza una faccia”, e il pollo fritto non è male. Tina e Antonio complicano un po’ l’esistenza alla cameriera, proponendo varianti impreviste dal menù, ma alla fine vengono accontentati, o si accontentano. Mi concedo anche un bicchierino di porto, di quello rosso e “buono”, garantisce la ragazza ai tavoli. Uscendo dal locale transitiamo davanti al banco dei dolci da asporto, un cameriere sta riordinando per la chiusura. Da dietro il vetro due solitari Pasteis de Belem ci fissano malinconici: sembra aspettino solo noi. Io e Marina li mangiamo per strada, in quest’ultima notte portoghese; contribuiranno forse a radicare nella memoria il ricordo di una terra dolce e semplice, come i suoi pasticcini.
Scendiamo a piedi fino alla Ribeira, per un ultimo sguardo alla città che si specchia nelle nere acque del Douro. Praca Ribeira è ancora animata da turisti, nonostante la guida suggerisca di evitare il luogo di notte; d’altra parte dirà la stessa cosa più o meno di tutti i centri storici europei…. Comunque tralasciamo di inoltrarci nei vicoli del quartiere vecchio, orbitando intorno alla piazza finchè decidiamo di salutare Porto e il suo fiume per tornare con l’autobus in albergo.
Nella notte l’orientamento risulta più difficile, ma un passeggero nota il mio sguardo perplesso mentre consulto la carta guardando dal finestrino, e si offre di darci una mano, chiedendoci dove stiamo di albergo: proprio alla fine questo popolo un po’ scontroso si riscatta, non vorrà lasciarci un brutto ricordo….

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